lunedì 23 dicembre 2013

THE DESCENT (2005), Neil Marshall


Regno Unito, 2005
Regia: Neil Marshall
Cast: Shauna Macdonald, Natalie Mendoza, Alex Reid, MyAnna Buring, Saskia Mulder
Sceneggiatura: Neil Marshall


Trama (im)modesta – Juno, Sarah, Beth, Sam e Rebecca sono un gruppo di amiche amanti dello sport estremo. Dopo una giornata passata a fare rafting in Scozia, Sarah è coinvolta in un incidente automobilistico in cui perde il marito e la figlia. Un anno dopo, il gruppo si riunisce ancora per esplorare le grotte di Boreham. Ma mentre le donne c’è un incidente, un passaggio crolla. Il gruppo cerca una nuova uscita ma Juno rivela loro di averle portate in un complesso di grotte sconosciuto. Sono bloccate dentro. La situazione già non è delle migliori ma dato che piove sempre sul bagnato, le protagoniste scoprono di non essere sole, lì a due miglia sotto terra. Mostruosi umanoidi albini danno loro la caccia nel buio...


La mia (im)modesta opinione – Lo devo confessare, ero alquanto diviso riguardo le premesse di The Descent. Ero naturalmente a conoscenza del suo assoluto successo di pubblico e critica e l’ambientazione claustrofobica, i soffocanti canali sotterranei di uno sconosciuto complesso di grotte, promettevano un grande horror. Meno mi convinceva l’idea dei mostri che davano la caccia alle donne. Con mio grande sollievo, però, l’apparentemente inesperto Neil Marshall è riuscito a fondere plausibilmente tutti gli elementi della pellicola, creando, se non un horror rivoluzionario, almeno una delle pellicole di paura più notevoli del suo decennio.


Punti di forza del film e della storia sono la crescente originalità della storia che parte da angoscioso racconto di un incidente di speleologia e diventa via via più visionario, con geniali soluzioni visive e di fotografie, virate in verde e in rosso alternate al buio assoluto, fino al lirico, catartico, allucinatorio finale. Secondo pregio è la forza del personaggio della protagonista Sarah e, in generale, di tutte le più abborracciate comprimarie. Riservandomi di parlare di Sarah più avanti, sottolineo qui quanto positivamente m’abbia colpito la resa delle protagoniste non come indifese scream queens ma come donne mature, combattive, fortissime.


Come ho detto poco sopra, il personaggio centrale è quello di Sarah. È il suo personaggio il più viscerale, intenso, simbolico. Sebbene parta come la solita donna depressa, pronta ad affrontare le sue paure, scontrandosi contro il soprannaturale (la tradizione cinematografica ne è piena zeppa), il personaggio di Sarah possiede un dipiù di furia primordiale, di significanza e di lirismo. Mentre la trama horror si svolge normalmente, con le protagoniste separate e riunite che combattono contro i mostri, mi pare degno di nota che Sarah rimanga da sola ad affrontare il tradimento e la morte (il colpo di grazia inferto a Beth, le menzogne di Juno) e la paura allo stato puro.


Il finale è amarissimo. Ma questo dipende dalla versione che avete visto. Esiste infatti una versione confezionata per il mercato americano, riconoscibile dal lieto fine, e una originale, dove il lieto fine è solo apparente, e la pellicola di Marshall rivela tutta la sua amarezza, la sua rude poesia, la sua visionarietà. Ma non travisatemi: The Descent è un film dell’orrore. I brividi che regala sono veri. La claustrofobia dei budelli pietrosi, il peso di due miglia di roccia, l’angoscia del silenzio da mantenere (le creature mostruose sono cieche, ma vedono attraverso il suono, come i pipistrelli) fanno di The Descent un horror insieme di ampio appeal e di rara bravura registica.


Meravigliosa la fotografia, incredibilmente fantasiosa considerando che per più di tre quarti il film è ambientato in una serie di caverne. Le luci dei fuochi di segnalazione, degli stick fluorescenti, del fosforo delle rocce procurano forti virate coloristiche. Grandiose le ricostruzioni del mondo sotterraneo della grotta, sempre più surreale e spaventoso man mano che l’incubo va avanti. Pavimenti di resti umani, stagni di sangue, abissi neri, cascate e la finale, biblica scalata di ossa che conduce alla luce. The Descent è, a ragione, un classico moderno del proprio genere. Da non perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il regista Neil Marshall ha citato i cult assoluti Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, La Cosa (1982) di John Carpenter e Un tranquillo weekend di paura (1972) di John Boorman come ispirazione. Classici film claustrofobici sono poi Prigionieri dell’Oceano (1944) di Alfred Hitchcock, il kafkiano Cube (1997) di Vincenzo Natali e il valido 127 Hours (2010) di Danny Boyle.


Scena cult – Sarah da sola nella grotta, piena di sangue, che lotta per la sua vita. La scalata sulla montagna di ossa. Il visionario finale.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 17 dicembre 2013

ECSTASY GENERATION (1997), Gregg Araki


USA, 1997
Regia: Gregg Araki
Cast: James Duval, Rachel True, Nathan Bexton, Christina Applegate, Kathleen Robertson, Sarah Lassez, Heather Graham, Ryan Philippe
Sceneggiatura: Gregg Araki


Trama (im)modesta – Dark e Mel sono una coppia diciottenne di amanti bisessuali e alienate. Attorno a loro ruota un sottobosco di figure più o meno bizzarre, non meno estreme e devastate di loro: Lucifer, amante lesbica di Mel; gli autodistruttivi, sessuomani Shed e Lilith; Montgomery, biondino innocente, biancovestito dagli occhi difformi. E, fra tutti loro, cammina non visto un alieno bizzarro, che ne rapisce alcuni. Così, fra sparizioni, metamorfosi, suicidi si consuma una giornata per la gioventù condannata dell’allucinata Los Angeles.


La mia (im)modesta opinione – Gregg Araki è un autore bizzarro. La sua estetica curiosa, a metà fra il B-Movie fantascientifico (visto come estremo escapismo da un mondo troppo duro) e il porno softcore, ci ha regalato film stranamente poetici (vedi Mysterious Skin) e anche assai divertenti (come il più recente Ka-Boom). Troppe volte, però, come autore, ha preferito ricoprire un facile maledettismo con onirismi tinti di Lynch e, più in generale, con le sue interessanti trovate visive. Ma proprio per questo il rischio d’incorrere nello stallo “style over substance” è grosso e pesante.


Chiariamoci. Sono io il primo che favorisce lo stile al di sopra della sostanza e devo certo ammettere che l’estetica pop di Araki mi seduce in qualche maniera. Ma in questo film (il cui titolo originale è un più sensato Nowhere), come in altri, dove il regista funge anche da sceneggiatore, vediamo una maggiore talento per il lato più cinematografico piuttosto che per quello narrativo strictu sensu. Il risultato? Araki monta un videoclip notevole, torbido e allucinato, ma né lo organizza in forma di storia né lo usa per filosofeggiare. Anzi, si potrebbe dire che sta così attento all'architettura di ogni singolo frame che finisce per dimenticare il senso generale del suo intero lavoro.


Tanto peggio è che tenta di filosofeggiare. Con appassionata superficialità mostra tutti i gradi dell’alienazione (e dell’abiezione) della fantomatica Doom Generation, la generazione superficiale, quella (secondo le stesse parole di Araki) condannata a vivere la fine del mondo. Ebbene, questa generazione viene molto descritta ma poco spiegata (tutt’al più scappa qualche riferimento alla teledipendenza, al rapporto sempre più conflittuale coi genitori, alla disperata confusione sessuale), con il risultato di dipingere un pastiche efficace ma condito da tante e tali aporie intestine da farci sovvenire il dubbio sulle effettive capacità di penetrazione di Araki all’interno della propria stessa opera.


Altra pecca del film: vorrebbe essere trasgressivo ma non riesce a esserlo. Sì la violenza grafica, verbale e psicologica è notevole, ma poco ci viene effettivamente concesso dal punto di vista più fisico. Strano, facendo vedere assai di meno, un maestro come Gus Van Sant riesce a colpirci parecchio di più. I pregi dell’eleganza: il bacio scambiato sotto la doccia dai killer dell’indimenticato Elephant è molto più significativo, estremo, conturbante di un’ora e diciotto di pruderie sfuse condite con parolacce, violenza all’ingrosso e nichilismo  gratuito.


Ma credo che Araki sia così. Profonda incompetenza nell’intreccio mescolata a visioni di profetico camp, sublime bellezza (affascinanti gli occhi di doppio colore del biondo Montgomery) e trash del più turpe. Autentica furia autodistruttiva e dozzinale retorica post-grunge. Ecstasy Generation lo boccio a metà e a metà lo promuovo: troppo mi piace quell’estetica anni ’90 fatta di LSD, troppo mi piace quell’irrequietezza. A non piacermi è il facile pessimismo, la generale tendenza radical-chic declinata in salsa camp/omoerotica. Da rivedere, ma sempre tenendo a mente le più riuscite pellicole di Araki.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Non migliore ma forse più iconico è Doom Generation (1995) sempre di Gregg Araki, seguito a ruota dai validi Mysterious Skin (2004) e Ka-Boom (2010). Andiamo più in alto, verso la Trilogia della Morte del grande Gus Van Sant: Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005). Sempre di Gus Van Sant segnalo Mala Noche (1985), Belli e Dannati (1991) e Paranoid Park (2007). Né potrei dimenticarmi dell'assoluto capolavoro Kids (1995) di Larry Clark.


Scena cult – Lo stupro di Egg, l’erotico incipit sotto la doccia, tutte le scene fra Ryan Philippe e Heather Graham.

Canzone cult – Grande colonna sonora. Cito Life is Sweet dei The Chemical Brothers remixata dai Daft Punk, il remix di Daydreaming dei Massive Attack, i Radiohead con How Can You Be Sure e la Kiddie Grinder di Marilyn Manson.

venerdì 13 dicembre 2013

CHARLIE COUNTRYMAN (2013), Fredrik Bond


USA, 2013
Regia: Fredrik Bond
Cast: Shia LaBeouf, Evan Rachel Wood, Mads Mikkelsen, Rupert Grint, Melissa Leo
Sceneggiatura: Matt Drake


Trama (im)modesta – Dopo aver perso la madre, Charlie fa un viaggio a Bucarest dove, per un curioso groviglio del caso, conosce Gabi, bella e triste musicista il cui padre è morto a bordo dello stesso aereo che aveva portato Charlie in Romania. Ma le frequentazioni di Gabi non sono delle migliori: Charlie si ritroverà alle calcagna lo spietatissimo ex-marito di lei, un gangster dal grilletto facile che traffica eroina attraverso l’Europa dell’Est.


La mia (im)modesta opinioneThe Necessary Death of Charlie Countryman (abbreviato ora al solo nome del protagonista per la distribuzione internazionale) è un film d’esordio e si vede. Una pellicola che potrebbe parere firmata dalle mani di un autore giovanissimo ma la cui sapiente tecnica tradisce certo un tocco più attempato. Frederik Bond, svedese, si è fatto le ossa prima alle accademie di cinema newyorchesi per poi lanciarsi in una fortunata (e premiata) carriera di regista pubblicitario. Un tocco, quello del pubblicitario, che il film sente, se non pesantemente, almeno pervasivamente.


Visivamente, musicalmente e drammaturgicamente ogni scena del film è una meravigliosa chicca a sé stante. Questo è ovvio: Bond è specializzato in pubblicità, ossia in video di breve durata capaci di concentrare con la massima concisione ed esattezza un’idea, una sfumatura. E in questo lo svedese par bravo. Ma un film non è uno spot pubblicitario, deve avere più che unità vera e propria almeno una parvenza di coesione stilistica. Ed è qui che casca l’asino. Complice una sceneggiatura difficoltosa e disarmonica, certo degna di un autore più rodato ed esperto, il Charlie Countryman di Frederik Bond appare un film confuso fra la storia romantica e il dramma criminale, fra l’adrenalina degli inseguimenti e le visioni dell’acido lisergico.


I personaggi sono approfonditi ma appaiono piatti perché alquanto banali. Li salvano soltanto le interpretazioni del vigoroso cast capitanato da Shia LaBeouf che pare star vivendo una nuova rinascita all’interno del cinema indipendente dopo la brutta parentesi iniziata con Transformers, continuata con l’ultimo terribile Indiana Jones e, a quanto pare, conclusasi fra l’inizio di quest’anno e la fine di quello passato. Sempre perfetta è la bellezza lunare di Evan Rachel Wood, vera eroina di favola nera. Altre figure notevoli sono quelle del regale Mads Mikkelsen e di Ruper Grint, a cui purtroppo è riservata una parte assai limitata.


La colonna sonora è da visibilio, specialmente quando commenta inseguimenti al ralenti o vedute a volo d’uccello sulla Bucarest notturna. Il dilemma è sempre lo stesso in ogni caso: Charlie Countryman è un film esteticamente notevole ma poco compatto, anzi abbastanza confuso. Ciò per fortuna non ne pregiudica troppo la visibilità. Ossia, vi divertirete di più a guardare il fantasioso ma pasticciato Charlie Countryman piuttosto che l’oscuro ma denso (?) Solo Dio Perdona. Una pellicola dal piglio giovanissimo, dunque, entusiasta ed esagitata. Da vedere, non da adorare.


Se ti è piaciuto guarda anche...Project X (2012) di Nima Nourizadeh, che condivide con Charlie Countryman lo scrittore Matt Drake. Cito poi lo Spring Breakers (2012) di Harmony Korine, il già detto Solo Dio perdona (2013) di Nicolas Winding Refn, 21 & Over (2013) di  Jon Lucas e Scott Moore. Parlando poi dell’indiscutibile spirito goliardico che attraversa tutto il film non si possono non citare il trashissimo EuroTrip (2004) di Jeff Schaffer e l’inglese The Inbetweeners (2011) di Ben Palmer.


Scena cult – Il trip di acido di Charlie (Shia LaBeouf ha effettivamente assunto acido lisergico durante le riprese, per un effetto di maggiore realtà) e lo spettacolare inseguimento in metro.

Canzone cult – Iniziamo con Stars dei The xx, la psichedelica Intro degli M83 e Shot in the Back of the Head di Moby e, sempre di Moby, il remix della canzone After realizzato da Drumsound & Bassline.

giovedì 28 novembre 2013

SEX CRIMES (1998), John McNaughton


USA, 1998
Regia: John McNaughton
Cast: Matt Dillon, Kevin Bacon, Neve Campbell, Denise Richards, Bill Murray
Sceneggiatura: Stephen Peters


Trama (im)modesta – Sam Lombardo lavora nel liceo di una cittadina della Florida meridionale. È un membro apprezzato della comunità, almeno fino a quando non viene accusato di stupro da una studentessa: Kelly VanRyan. La polizia non è sicura della veridicità delle accuse, ma un’altra studentessa, Suzie Toller, afferma di aver subito violenze da Lombardo. S’imbastisce un caso, si organizza il processo. Ma un detective, Ray Duquette, sente puzza di bruciato: sotto la vicenda di Sam Lombardo si cela un vero serpaio d’intrighi e cospirazioni. E quando una delle accusatrici sparirà nel nulla, il caso si farà ancora più complicato.


La mia (im)modesta opinioneSex Crimes (brutto titolo italiano, l’originale era Wild Things) è un film grandemente sottovalutato sia dal pubblico che dalla critica. Lo si ricorda vagamente attraverso gli anni, lo si accosta a thriller erotici come Basic Instinct, Attrazione Fatale, Brivido Caldo od Omicidio a Luci Rosse. E, in qualche maniera, si fa bene a farlo perché è a quel genere di neo-noir che Sex Crimes appartiene. Ma laddove i più si aspettano una fragile storia criminosa condita di dettagli osè e sesso gratuito, il film di McNaughton riesce a farsi forte di una sceneggiatura essenziale e ben sviluppata e di una regia fermissima, degna del miglior neo-noir.


Sex Crimes è stato chiamato il thriller più ingarbugliato del suo decennio. È di certo vero: nemmeno nei titoli di coda siamo risparmiati dalla raffica dei colpi di scena e delle rivelazioni. Il gioco del film è astuto. Prende una direzione per farci sentire al sicuro, poi la cambia. Poi ancora un’altra volta e un’altra ancora. I personaggi del dramma sono sempre mutevoli, ma piuttosto che cambiare s’arricchiscono. Così Sam Lombardo, Suzie Toller, Ray Duquette e anche l’infuocata Kelly Van Ryan  appaiono via via in sfumature sempre meno convenzionali e prevedibili per diventare sempre più complessi e stratificati.


Sia chiaro, non bisogna certo aspettarsi dal film una profondità umana tout court, quanto piuttosto un progressivo arricchimento drammatico. E c’è un motivo per cui il titolo originale del film recitava Wild Things, cioè “Creature Selvagge”: tutto il quartetto dei personaggi principali (lo schivo insegnante, le studentesse, il poliziotto) è formato da persone rapaci, feroci come squali. Una partita a scacchi a quattro, un pericoloso paso doble ballato con la morte, questa è la vicenda di Sex Crimes, sempre più oscura man mano che la storia procede, con le scene ambientate alla luce del giorno pian piano sostituite da notturne che poi culminano nella luce accecante dell'oceano della scena finale.


Gli attori sono perfetti per i loro ruoli. Matt Dillon deve essersi divertito un mondo a interpretare lo sfuggente Sam Lombardo e Kevin Bacon non è mai stato tanto dentro la propria parte. Denise Richards fa quello che sa far meglio, cioè la femmina da schianto, e non le si domanda di più, Neve Campbell conferma il suo status di icona alternativa degli anni ’90 al cinema. I suoi ruoli nella saga di Scream, nel dramma Studio 54 e in questo noir la confermano come attrice versatile e complessa, peccato sia scomparsa dalle scene dopo il Millennio.


La colonna sonora è un altro punto a favore della pellicola: torbidissimi sassofoni, atmosfere torride e spettrali. E nemmeno fotografia e costumi scherzano: perfetti per creare l’indispensabile atmosfera afosa e umida della cittadina della Florida. Sex Crimes è un perfetto southern gothic, arroventato e sottile al punto giusto. Impensabile vantaggio è il taglio di alcune delle scene più spregiudicate dall’edizione italiana che cancella di colpo l’allure di thriller erotico con null’altro da offrire che i seni nudi di Denise Richards (e che seni!) e carne scoperta dell’intero cast. Ultimo, indispensabile tocco autoriale lo dà Bill Murray, attore che anche in film come questi si rivela un impagabile caratterista, giustamente adorato da metà dei cineasti indipendenti di Hollywood.


Se ti è piaciuto guarda anche... –  Di certo Bound – Torbido Inganno (1996) di Andy e Lana Wachowski insieme al classico trash Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven e il più ironico e frizzante L'ultima seduzione (1994) di John Dahl. Stravince Brian De Palma con il plasticoso Femme Fatale (2002) e il sicuramente migliore Omicidio a luci rosse (1984). Ricordiamo poi il sottovalutato ma modesto thriller Perfect Stranger (2007) di James Foley insieme al sommo cult anni ’90 Cruel Intentions (1999) di Roger Kumble.


Scena cult – Il tesissimo finale sulla barca a vela. Denise Richards fradicia d’acqua nel salotto di Sam Lombardo.


Canzone cult – La torrida I Had My Chance dei Morphine.

venerdì 8 novembre 2013

TWO MOTHERS (2013), Anne Fontaine


Francia, Australia, 2013
Regia: Anne Fontaine
Cast: Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel, James Frecheville, Ben Mendelsohn
Sceneggiatura: Christopher Hampton, Anne Fontaine


Trama (im)modesta – Lil e Roz sono amiche fin dall’infanzia. Il loro legame è tanto forte da essere tacitamente passionale, assoluto. Vivono da tutta la vita su una spiaggia d’inverosimile bellezza, anche i loro due figli, Ian e Tom, sono amici praticamente da sempre. Ma gli anni passano, le due, da giovani madri, diventano splendide signore di mezz’età, i loro figli due ventenni altrettanto belli. All’improvviso scatta qualcosa, un’attrazione, qualcosa che non sarebbe mai dovuta innescarsi: Roz s’innamora del figlio di Lil, Lil del figlio di Roz. Le due ne parlano, si trovano stranamente soddisfatte della paradossale situazione. Ma il tempo continua a scorrere e il complicato ménage à quatre non potrà durare per sempre...


La mia (im)modesta opinione – S’è detto e ridetto molto su Two Mothers, ultima fatica di Anne Fontaine, regista francese da sempre interessata ai meandri più oscuri della psiche femminile. Molti hanno bollato il suo film come puro trash, un’opera pseudoerotica per signore, una storia conturbante e perversa. È vero. Ma in questo film io ho visto anche di più di un semplice, ozioso esercizio sui pruriti sessuali di due piacenti signore borghesi. Two Mothers è stato accusato di fare psicologia spicciola, di blandire un tabù come questo con un approccio fin troppo carezzevole ed idilliaco per i gusti dei più, di essere in pratica una soap opera arricchita da una grande regia e intensissime interpretazioni. Io non la penso così.


La prima parte del film, quella che descrive lo sbocciare della spinosa situazione, è effettivamente spiazzante per la sua inverosimiglianza. Entrambe le donne, invece di andare su tutte le furie, esitano solo un poco prima di gettarsi nello spinoso entanglement sentimentale l’una con il figlio dell’altra. Ed ha ragione il critico Wesley Moss ad arguire che la storia sarebbe stata di tutt’altro appeal se al posto delle due bionde mozzafiato ci fossero state le ben più modeste Kathy Bates e Barbra Streisand e i due figli non fossero stati due avvenenti surfisti australiani, ma io credo che la questione sia più complessa di così.


Il film è praticamente basato su questi difetti. Si poggia per intero sulla bellezza patinata di luoghi e protagonisti, né al di fuori di questa avrebbe particolare ragion d’essere. E trovo io stesso scandalosa la maniera in cui è presentato questa sorta di incubo edipico. Ma questo diventa un punto di vantaggio per la partenza del film: era dai tempi de La Pianista di Haneke che non provavo un turbamento morale talmente sottile e profondo. Una volta che lo spettatore è preso all’uncino, meravigliato e terrificato insieme, la Fontaine sferra il suo colpo. E nella seconda ora della pellicola la vicenda si capovolge rimanendo stranamente la stessa.


Adesso i loro figli sono grandi, devono vivere la propria vita, devono per forza uscire dall’utero ibrido di questo sogno estivo in cui sono rimasti raggomitolati due anni. Entrambi si sposano, entrambi hanno figli. E si direbbe allora che il peggio è passato, che il legame s’è freddato ed è morto come era giusto che accadesse. Sbagliato, terribilmente sbagliato. La relazione in cui tutti e quattro sono sinistramente allacciati è inestricabile, adamantina. Tutti gli altri personaggi della storia non sono semplicemente esclusi da questo rapporto, ma lo spettatore li sente come spiacevoli incomodi, addizioni inutili a un rapporto che, per quanto profondamente sbagliato su tutti i livelli, trovava una sua perfetta armonia chiuso com’era in se stesso.


Il risultato è il più sognante di tutti. Estate per sempre, sogno perpetuo. Le convenzioni sociali, anche le più salde e universalmente riconosciute, crollano come un castello di carte. Non c’è spazio, in questo film, per il sentire comune, per il socialmente accettabile. Esistono cose talmente viscerali e sanguigne, cose che esistono e basta con così profonda prepotenza che negano l’esistenza di qualsiasi altra istituzione o magistero. Il rapporto d’amore fra le madri e i figli è davvero edipico, nel senso più sofocleo del termine: deve semplicemente accadere, non può essere eluso. Tutto odora d’atavico, di destinato, di scritto nel sangue stesso dei suoi protagonisti. E interessante è vedere come le figlie di Ian e Tom siano anch’esse due bambine, in tutto simili alle versioni bambine di Lil e Roz che il film ci mostra nel suo incipt.


L’agognato ritorno all’infanzia, la pace della carne, il riposo dello spirito. Una giovinezza che è sempreverde. Tutto condito con sottile perversione e grande scavo psicologico sia da parte della regia che da parte del cast mozzafiato. La prima coppia gioca tutta sul contrasto delle bellezze: maestosa e olimpica è la Giunone di Robin Wright, contrapposta a Naomi Watts, creatura eterea e nervosa. I loro due figli non sono certo da meno. Xavier Samuel (attore che promette grandissime cose) è completamente a suo agio nella parte d’efebo languoroso e passionale, mentre la sua controparte, il più membruto James Frecheville, è placido come uno specchio d’acqua, dietro i suoi occhi verdi si nasconde una passione freddamente scandita, calcolata.


Tutti bellissimi, tutto bellissimo. L’ambientazione stessa è da cartolina. Anne Fontaine è impetuosamente innamorata del glorioso paesaggio del New South Wales, delle sue spiagge infinite, delle sue onde di lapislazzulo. È innamorata degli sguardi delle due protagoniste e dei corpi d’atleta di Samuel e Frecheville. Quella ricercata dal film è raramente una bellezza costruita, artisticamente complessa quanto più un richiamo ancestrale alle meraviglie della Natura. Proprio la Natura, la spettacolare vista sulle baie australiane, sul potere delle onde domate dalle tavole da surf, è avvertita come una quinta protagonista del film – un film che è pieno di luce dorata, grazie a una fotografia radiosa, travolgente.


Che si legga in Two Mothers ciò che si vuole. Che lo si accusi di tutto: morbosità, celebrazione dell’immorale, faciloneria narrativa. Ma quello della Fontaine è un film profondamente francese, riflessivo, intuitivo, gonfio d’innuendi e pacate caratterizzazioni, tutte affidate alle due fuoriclasse Robin Wright e Naomi Watts che hanno ruoli difficilissimi: un filo di emotività in più e la pellicola sarebbe diventata un melodramma urlato di gusto balordo, un filo di emotività in meno e avremmo avuto davanti un prodotto facilmente sensazionalistico. Invece la regia è elegantissima, le interpretazioni calibrate con una perfezione che non vedevo da tempo, la sceneggiatura convenientemente essenziale eppure profonda.


Two Mothers è un film che ho trovato difficile, ammorbante. Malioso e spaventoso insieme, una vera sfida gettata in faccia alla morale comune. Probabilmente sarò il suo unico difensore, poco m’importa. Ho voluto detestare questo film con tutte le mie forze e non ci sono semplicemente riuscito. Troppo coinvolgente, troppo fine per essere una bufala. Magari è una mia impressione, magari è vero quello che dice il resto del mondo. Ma in fondo sono sempre stato un tipo dai gusti cavillosi e dagli strambi capricci. Invito tutti a guardarlo e dare un giudizio, entusiasta o disgustato che sia. Ma, delusione o no, non è un film che non vale la pena guardare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho citato La Pianista (2001) di Michael Haneke, come analisi della psiche femminile assai vicina a questo film. Altro spettacolare studio è il conturbante Diario di uno scandalo (2006) di Richard Eyre. Altrettanto fascinoso è il fantascientifico Womb (2010), Benedek Fliegauf ed impossibile sarebbe non citare il classico Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott. Non dimentichiamo il prezioso Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola e il più indipendente e torbido Cracks (2009) di Jordan Scott. Assai consigliati sono anche Swimming Pool (2003) di François Ozon e Nathalie... (2003) sempre di Anne Fontaine.


Scena cult – Gli ultimi quindici minuti. L’ultima sequenza è di rara intensità.

Canzone cult – Il leitmotiv In These Shoes? di Kirsty MacColl

giovedì 7 novembre 2013

COME TI SPACCIO LA FAMIGLIA (2013), Rawson Marshall Thurber


USA, 2013
Regia: Rawson Marshall Thurber
Cast: Jason Sudeikis, Jennifer Aniston, Emma Roberts, Will Poulter, Nick Offerman
Sceneggiatura: Bob Fisher, Steve Faber, Sean Anders, John Morris


Trama (im)modesta – David è un piccolo spacciatore di marijuana con una vita semplice ma vuota. Un giorno viene derubato da una banda di teppisti che gli porta via soldi e droga. Per farsi perdonare dal suo eccentrico grossista, David dovrà trasportare un carico di droga attraverso la frontiera messicana. Il compito è difficile, il rischio è grosso. Per portare a termine la missione sano e salvo, David deciderà di farsi passare per padre di famiglia. Recluterà una stripper, una scappata di casa e un diciottenne sprovveduto per far finta di essere l’allegra famiglia Miller e non destare sospetti alla dogana. Tutto, eccettuata qualche disavventura, pare andare per il meglio, ma il gruppo fa arrabbiare un signore della droga locale, che giura vendetta...


La mia (im)modesta opinioneWe’re the Millers (orribile il titolo della traduzione italiana) ha avuto grande successo così al cinema come nella blogosfera. I pregi al film non mancano di certo, ma altrettanto certamente si può dire che il film di Thurber (già direttore del tollerabile Dodgeball) non sia del tutto esente da difetti, sebbene quella che abbiamo fra le mani sia una delle commedie commerciali più riuscite dell'anno. La pellicola intera si regge sullo strepitoso cast e sui guizzi di una sceneggiatura che risente della presenza di troppi autori e può essere accusata di inoffensiva ma un po’ fastidiosa incoerenza stilistica.


Il film non è stabile. Passa da cultura pop e caustica irriverenza alla demenzialità più balorda con facilità francamente disarmante. Non parliamo poi della vena assai larvata di moralismo su cui la vicenda culmina: sono i fuochi del Quattro Luglio a permettere al protagonista di salvare la situazione, a liberarsi del solito cattivone messicano (chissà perché il cattivone americano è un ilare gigione e quello messicano un masnadiere vendicativo e basta) e a conquistare la donna dei suoi sogni. Anche il lieto fine, con paternalistica inclusione del nucleo familiare autonomo nella società costituita (nonostante un buon salvataggio in calcio d’angolo) puzza di moralismo facilotto. Peccato, il film si era condotto proprio bene: acidissimo e dissacrante quasi senza la minima interruzione.


Le scivolate di gusto, poi, denunciano una regia facilmente sensazionalistica e dal palato grosso. Non parlo del premiatissimo striptease di Jennifer Aniston (potrebbe far bollire l’acqua della pasta, con quella lingerie addosso), quanto piuttosto dell’ingenuo deus ex machina durante la scena del controllo alla dogana e al francamente poco necessario nudo frontale dell'attore rivelazione Will Poulter con close-up sulle sue parti basse. Una mossa decisamente becera. Poco piacevole anche la gratuità di qualche scena qui e là e la già detta ingenuità dei punti nodali della trama.


Ma non ci sono solo difetti, in questo film. E, tutto sommato, We’re the Millers si dimostra una commedia commerciale ma ben al di sopra della media. Con un certo gusto del trash à-la-Seth McFarlane e che regala momenti di genuine risate, specialmente quando la famiglia Miller al gran completo deve impegnarsi a mantenere in piedi la copertura. Il cast, come ho già detto, è il più grande valore della pellicola (meraviglioso Nick Offerman) sebbene piegato alle voglie un po’ pecorecce di una regia che avrebbe tratto profitto da una maggiore finesse di messinscena. Ma pazienza. Per un po’ di sane risate, qualche difetto (grosso, ma a cui siamo abituati) può anche essere perdonato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Perla della comicità trash è Babbo bastardo (2003) di Terry Zwigoff insieme anche a Suxbad: Tre menti sopra il pelo (2007) di Greg Mottola. Altri esemplari “eccellenti” il campionario ne offre: American Pie (1999) di Paul Weitz, il parodico Non è un'altra stupida commedia americana (2001) di Joel Gallen, Rat Race (2001) di Jerry Zucker e Vacanze di sangue (2004) di Jay Chandrasekhar. Per il genere dei family trips consigliamo poi i grandi classici Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris e National Lampoon's Vacation (1983) di Harold Ramis.


Scena cult – La “lezione di baci” al verginello Kenny, lo striptease di Jennifer Aniston.

Canzone cult – Tre su tutte: Waterfall delle TLC, Sweet Emotion degli Aerosmith e la grintosa Put the Gun Down di ZZ Ward.

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