domenica 29 settembre 2013

WHAT RICHARD DID (2012), Lenny Abrahamson


Irlanda, 2012
Regia: Lenny Abrahamson
Cast: Jack Reynor, Roisin Murphy, Lars Mikkelsen, Sam Keeley, Gavin Drea
Sceneggiatura: Malcolm Campbell


Trama (im)modesta – Richard ha tutto: è il bonazzo della sua scuola, una brillante carriera universitaria l’attende, ha forse trovato l’amore, ha la fortuna di una famiglia amorevole... Tutto, insomma, pare andare per il meglio, in quella magica estate irlandese di feste e complici abbracci. L’ultima particella di libertà, prima che il futuro cominci a gettare sul presente l’ombra grande della vita adulta, con le sue responsabilità e i suoi drammi. Non ci si potrebbe mai aspettare che tutto sia rovinato. Da una zuffa fra amici, poi... Eppure, la mattina dopo, un ragazzo viene trovato cadavere. Viene trovato cadavere dopo che tutti l’avevano visto alzarsi, dopo averlo pestato a sangue...


La mia (im)modesta opinione – Un Delitto e Castigo tascabile, questo m’è parso il film di Lenny Abrahamson, autore che non conoscevo ma i cui film dovrò recuperare. Senza una minima traccia di facili moralismi o banalissime escursioni nei meandri della colpa, senza nessun gusto macabro per la casistica truculenta, la pellicola racconta la storia di un ragazzo come moltissimi altri, anzi, di un bravo ragazzo (genere quanto mai raro, di questi tempi) che entra nella più grande crisi della sua vita e semplicemente non sa cosa fare.


Il film, da questo punto di vista, è umanissimo. Di un’umanità scottante, quasi dolorosa, verissima. La naturalezza con cui la malinconia dei diciott’anni è dipinta alla perfezione con sopraffini toni smorzati, silenzi, l’eloquenza dei gesti. L’universo della colpa è accennato e, insieme, perfettamente delineato, fino alle conseguenze più inevitabili che, per fortuna, non discendono mai nel grandguignolesco. Le stesse allusioni a droga, alcol e sesso (e se ne vedono a bizzeffe) sono disinfettate d’erotismo, scarnificate, hanno una valenza documentaria.


Jack Reynor è un attore straordinario. Richard Karlsen è un personaggio che pare vivo, approfondito quasi come un personaggio di libro. Altra highlight della storia è Lars Mikkelsen (fratello del Mads Mikkelsen di Hannibal): un padre al limite, una psiche che quasi possiamo sentire. Questo il grande pregio del film di Abrahamson: iniziare con la cronaca nera e finire con le sfaccettature dell’animo umano. Una procedura non dissimile (nemmeno per trama) dal capolavoro assoluto Paranoid Park di Gus Van Sant, solo con un tocco estetico dal gusto più nordeuropeo.


Verismo e stilizzazione, tenerezza e ferocia, bellezza e supplizio, gioventù e condanna. Tutti questi elementi concorrono, in What Richard Did, alla creazione di uno dei drammi indipendenti più toccanti mai visti. La complessità sottintesa dei rapporti umani, l’ambiguità dell’empatia verso un personaggio che è ambiguo verso se stesso, le citazioni colte (non pochi hanno ritrovato, nella consonanza di dilemma morale e sublime e disteso paesaggio del Nord Europa, echi lontani di Bergman) fanno di questa pellicola una nuova conquista dell’umanissimo cinema nordeuropeo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il problema del crescere. Iniziamo con la perla indipendente Dreng (2011) di Peter Gantzler per proseguire con il commovente Un’estate da giganti (2011) di Bouli Lanners. Spostandoci sull’altro versante dell’Oceano, abbiamo l’assoluto cult personale Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant e il sommo capolavoro Tout Est Parfait (2008) di Yves Christian Fournier. E non dimentichiamo l’ottimo Evil (2003) di Mikael Håfström.


Scena Cult – Il dialogo col padre, il funerale dell’amico ucciso.

Canzone cult – Non pervenuta.

giovedì 19 settembre 2013

I RAGAZZI STANNO BENE (2010), Lisa Cholodenko


USA, 2010
Regia: Lisa Cholodenko
Cast: Annette Benning, Julianne Moore, Mia Wasikowska, Josh Hutcherson, Mark Ruffalo, Yaya De Costa
Sceneggiatura: Lisa Cholodenko, Stuart Blumberg


Trama (im)modesta – Nic e Jules sono una coppia lesbica, sono riuscite a creare una famiglia felice con i loro due figli avuti grazie a un donator di seme, Joni e Laser. Dietro le pressioni del fratello minore, Joni contatta la banca del seme per rintracciare il padre biologico suo e di suo fratello. Lo trovano. È Paul, ristoratore, impenitente dongiovanni, subito entusiasta di poter conoscere i due figli naturali. Sebbene reticenti, Nic e Jules provano a includere Paul nel loro ménage familiare. Ma anche se sua moglie e i suoi figli sono assai entusiasti della nuova presenza di Paul nella loro vita, Nic rimane all’erta, sospettosa e diffidente. Quando poi scoprirà della relazione che Jules e Paul hanno, l’intera unità della sua famiglia correrà grandissimi rischi.


La mia (im)modesta opinione – Di solito non apprezzo le mezze misure. Né parteggio per film consolatori dove tutto finisce bene, ma, in qualche modo, I ragazzi stanno bene riesce a essere a suo modo un film impegnato e radicale. Impegnato perché affronta delle dinamiche familiari con assoluto realismo e aderenza alle cose. Niente idealizzazioni, né in senso buonista né in senso conflittuale. Radicale, sì, per la sua positività. La sceneggiatura della Cholodenko e di Blumberg cesella con grandissima precisione la decadenza e ripresa di un nucleo familiare ma lo fa alla luce dell’ottimismo, dei valori familiari dell’amore reciproco e indissolubile, senza per questo risultare melensa e scontata.


E nemmeno potrebbe dirsi che, dal punto di vista dello spettatore, il film finisca in un deciso trionfo. Sì, alla fine tutti stanno bene ma il personaggio di Paul è l’unico che scompare prima del finale vero e proprio, l’unico che alla fine della storia non ottiene nulla. Se ne va e basta. Scompare, si potrebbe dire, come scompaiono certe persone dalla nostra vita di ogni giorno: da un momento all’altro, dopo un rapido capitolare delle apparenze. Non c’è nemmeno un addio che gli si dedichi. È lui il responsabile dello squilibrio causato nella sottile chimica familiare, è lui colpevole di aver esposto l’effettiva presenza di fratture e scomposizioni. Ma forse il conflitto rende più forte la famiglia di Nic e Jules, aiuta a chiarire, a risolvere.


Il film, come ho già detto, è di grande profondità. Certo, le tematiche (o il modo di gestirle) non è affatto rivoluzionario, né chi, come me, è poco candido d’animo si lascerà meravigliare troppo dalla piacevole pellicola della Cholodenko. Fortuna allora che la regia eviti le zuccherosità à la Frank Capra, decida di trattare una storia adulta con piglio adulto. Non è questo infatti il film che i genitori potrebbero far vedere ai propri figli: c’è la droga, il sesso, l’adulterio, la crisi. La storia non arretra davanti a nulla, è onesta, genuina. Unici difetti, allora, che posso rimproverargli sono quelli di aver messo in scena una pletora di personaggi di contorno francamente inutili, necessari per colorire l’affresco di una vita familiare popolata anche da amici, fidanzatini e così via.


Gli attori sono spettacolari. Menziono subito Josh Hutcherson, che non si distingue particolarmente, ma che considero un mio attore di culto personale. La Wasikowska è una sorpresa: eterea, bella eppure realistica, delicata come un gelsomino. Julianne Moore e Mark Ruffalo fanno un ottimissimo lavoro: lei, struccata, si lascia alle spalle le bellezza da diva retrò per un ruolo carnale e intenso; lui è perfetto per la parte del bohemién della porta accanto. Annette Benning è semplicemente meravigliosa, anche se ai ruoli di madre sopra le righe ci ha abituati da lungo tempo: era così in Correndo con le forbici in mano, in Ruby Sparks, in American Beauty. Si conferma, comunque, come una delle mie attrici favorite.


Il film della Cholodenko, in breve, è assai valido. Una commedia che sa essere esilarante in certi punti e drammatica in altri, dove ci affezioniamo a tutti i personaggi. Un film certamente coraggioso nel suo dipingere un nucleo familiare che potrebbe essere considerato non convenzionale come una famiglia perfettamente funzionante. Ed è proprio la sprezzatura con cui il lato più “facile” del dipingere un contesto familiare gestito da due genitori omosessuali, evitando triti drammi su integrazione e funzionamento a fare di quella di Nic e Jules la famiglia del nuovo millennio, aperta, tollerante, responsabile.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Commedie familiari non convenzionali. Iniziamo dallo sfrenatissimo Come ti spaccio la famiglia (2013) di Rawson Marshall Thurber, con il più impegnato Juno (2007) di Jason Reitman e il leggero City Island (2009) di Raymond De Felitta. C’è poi il sommo I Tenenbaum (2001) di Wes Anderson, Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, La mia vita a Garden State (2004) di Zach Braff e lo stupendo Pleasantville (1998) di Gary Ross.


Scena cult – Il “discorso” di Annette Benning e Julianne Moore a Josh Hutcherson. Una lezione di comicità.

Canzone cult – Colonna sonora parecchio indie. Segnaliamo i Tame Impala di Sundown Syndrome, Cousins dei Vampire Weekend e When I Grow Up di Fever Ray. 

domenica 15 settembre 2013

HARRY BROWN (2009), Daniel Barber


Regno Unito, 2009
Regia: Daniel Barber
Cast: Michael Caine, Emily Mortimer, Ben Drew, David Bradley, Liam Cunningham, Iain Glen, Jack O’Connell
Sceneggiatura: Gary Young


Trama (im)modesta – Harry Brown è un marine in pensione. Vive in uno squallido quartiere popolare in mano alle baby gang, ha pochi amici e una moglie in coma, in ospedale. Una notte, viene chiamato dall’ospedale: sua moglie sta morendo. Troppo timoroso di attraversare il sottopassaggio pieno di teppisti, fa una deviazione e arriva troppo tardi. Pochi giorni dopo Leonard, suo amico, viene ucciso, pestato a sangue nel sottopassaggio. La situazione è bollente, la polizia brancola nel buio. Una sera, sbandato armato di coltello minaccia Harry, lui per errore lo uccide. Passatala franca, l’anziano decide di armarsi di pistola e di vendicare le violenze da cui tutto il vicinato è tormentato.


La mia (im)modesta opinione – Detta così, la trama, pare quella di un film pulp di serie B. Non lo è. Harry Brown è un film durissimo, scioccante. Una pellicola di senso eminentemente civile, una fortissima denuncia sociale mascherata da vigilante movie. Le scene che vediamo sullo schermo dovrebbero toccare pure noi, italiani. Perché? Perché non è raro vederle all’ora di pranzo, al telegiornale, nei filmati della polizia sulle operazioni nei quartieri degradati del Mezzogiorno come Scampia, lo ZEN di Palermo, il Librino catanese, Secondigliano o Rione Forcella. Scene di tremendo realismo: mentre i poliziotti arrestano dei sospettati, intere famiglie scendono in strada a vomitare insulti; se arrivano le forze di polizia per un blitz, si scatena l’inferno.


La regia è quasi veristica nel rappresentare questa realtà di estremo degrado sociale, la triste rassegnazione degli onesti, la tragica fine di chi lotta. Abbiamo l’intero pacchetto: le gang a conduzione familiare installate nel quartiere, le zone inaccessibili al “pubblico”, il giro di droga, di armi. Solo che questo non è il Sud malavitoso, non è La Zisa, non è il Quarto Oggiaro milanese o la Corviale romana. È l’Inghilterra, anzi, è un sobborgo londinese, i palazzi popolari di Harry Brown sono tutti veri, sebbene adesso abbandonati. È proprio questa la scena in cui si muove il nostro attempato giustiziere, una figura a metà fra il tragico e il patetico, incarnato da un Michael Caine di sopraffina e incredibile bravura.


Il film, come ho detto sopra, non è facile. Già dall’attacco della storia ci si sente pesare addosso lo squallore architettonico, sociale e urbano che fa da contesto alla storia. La borgata dove l’illegalità è celebrata e che i vecchi residenti non riconoscono nemmeno più. Potrebbero quasi far ridere questi anziani che berciano contro i ragazzacci che bighellonano per la strada, ma quei pelandroni, quei piccoli criminali sono individui pericolosi davvero. Gioventù di strada, che nella violenza, nell’ignoranza, nella povertà, nel crimine ci sguazza praticamente da sempre. Riformarla è impossibile, non sono nemmeno capaci, quei giovani, di vedere una diversa realtà, di pensare in una logica diversa da quella pseudomafiosa a cui sono abituati fin dalla culla.


Quella del thriller, con la tensione, i colpi di scena, la violenza, la vendetta, è tutta una sovrastruttura. Ciò che Harry Brown fa è un commentario sociale non solo contro lo stato di rovina in cui versano i sobborghi delle grandi capitali dell’Occidente, ma anche verso le istituzioni troppo imbrigliate da burocrazia e distacco, verso una stessa generazione di sbandati e crudeli, senza rispetto o valore, pericolosi, sbagliati. Lo stesso Harry Brown lo dice, esasperato dalla nequizia di questa gioventù: per loro non si tratta di crudeltà, ma d’intrattenimento. Lo stesso mortifero Noel, capo della feroce gang, sorride divertito davanti a una donna quasi strangolata a morte. Non possiamo scordare il folgorante incipit: mezzo minuto di riprese al cellulare, droga, una corsa in moto, l'omicidio accidentale di una donna innocente.


Partecipa al film anche l’attore/cantante Plan B che, insieme al duo Chase & Status, firma la colonna sonora con il brano End Credits. La regia di Barber è sapientissima, pare difficile credere di aver davanti un autore che è solo al suo secondo lungometraggio. Il cast di attori è superbo: Michael Caine colpisce allo stomaco, con il suo passo tardo, il suo muto soffrire. Emily Mortimer è ottima e grintosa come sempre. Abbiamo poi Liam Cunningham e Iain Glen direttamente dal cast di Game of Thrones, un ottimo e cattivissimo Ben Drew e anche una comparsata (tragica) del simpatico Joseph Gilgun di Misfits. Ottima orchestrazione, profondissima sceneggiatura del solitamente più leggero Gary Young, già co-scrittore del pulp The Tournament. Insomma, uno dei migliori film inglesi dell’ormai lontano 2009, da vedere assolutamente.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Naturalmente Gran Torino (2008) di Clint Eastwood e Il giustiziere della notte (1974) di Michael Winner. Poi abbiamo la perla assoluta Boy Wonder (2010) di Michael Morrissey, Il buio nell’anima (2007) di Neil Jordan e il classico Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese. Citiamo anche Ill Manors (2012) di Ben Drew e la serie tv Skins (2007-2013) di Bryan Elsley e Jamie Brittain. Consigliamo pure Confessions (2010) di Tetsuya Nakashima e Tyrannosaur (2011) di Paddy Considine. Per una diversione più leggera, ma sempre sul tema “la terza età si arma” c’è lo spassoso Red (2010) di Robert Schwentke seguito da Red 2 (2013) di Dean Parisot.


Scena cult – La scena dello spacciatore, la vendetta di Harry sui ragazzi della gang e l’incipt in stile found-footage

Canzone cult – Naturalmente End Credits di Plan B e Chase & Status.

sabato 14 settembre 2013

MASTERS OF HORROR: IMPRINT (2005), Takashi Miike


USA, Giappone, 2005
Regia: Takashi Miike
Cast: Billy Drago, Youki Kudoh, Michié, Shinichi Tanaka, Seriyu Ichino, Toshie Negishi
Sceneggiatura: Daisuke Tengan


Trama (im)modesta – Christopher è un americano che, sul finire del diciannovesimo secolo, si reca in Giappone per trovare e portare via con se Komomo, prostituta di cui, durante un primo viaggio, s’era innamorato. Le sue ricerche lo portano su un’isola-bordello dove non trova Komomo ma su cui è costretto a passare la notte. Lì riceve la compagnia di una misteriosa prostituta sfigurata che gli rivela di come la sua amata sia stata torturata a morte, accusata ingiustamente d’aver rubato un preziosissimo anello. Ma Christopher non è convinto dal racconto della donna e le chiede con più insistenza la verità, la donna allora comincia a raccontare un'altra versione della storia, più terribile della prima che porterà Christopher alla follia.


La mia (im)modesta opinione – Il mediometraggio horror più malato di sempre. E non lo penso solo io, ma anche le reti televisive americane che hanno deciso di non trasmetterlo per via della sfilza di atrocità che la pellicola conteneva. E non sono robe da poco: ferocissime torture, incesti, feti abortiti, mostri bicefali, scatenatissimo body horror, cervelli in aria e via così. Certo, bisognava aspettarselo: Takashi Miike non è certo conosciuto per delicatezza e buon gusto. Non dimentichiamoci che parliamo del regista di Ichi The Killer, Visitor Q, Three... Extremes e di Audition. Di certo tutti film non adatti agli stomaci deboli.


Il sospetto qui, però, è che Miike travalichi con troppo compiacimento i limiti del buon gusto. Ovvio, l’horror asiatico ama sdoganare i tabù che in Occidente sono considerati intoccabili; quasi si sforza di calcare i toni per spingere al raccapriccio il pubblico. Ma proprio in Imprint (in italiano, Sulle tracce del terrore) la concentrazione di cose abominevoli pare eccessiva, quasi forzata. Chiaramente qui è il mio senso di ripulsa a parlare. Quello che il film fa è mettere in scena il Male, un Male così assoluto che diventa quasi sinonimo di una predestinazione, d’inevadibile spirale che trascina ognuno verso l’assurda follia.


Graficamente, il film è insostenibile. I cinque minuti della scena di tortura sono una delle cose più lancinanti che abbia mai visto sullo schermo. Peggio ancora l’intera pletora di aborti, feti deformi e sanguinanti, stupri pedofili e omicidi con spargimenti di sangue. Una storia che personalmente ho trovato troppo malsana, quasi stomachevole. Ma nemmeno sono rimasto insensibile a quella strana poetica di favola nera che Miike adotta come registro narrativo, una sorta di Alice nel paese delle meraviglie dove, in fondo alla buca del coniglio, ci sia un aberrante carosello d’orrori. E sebbene il talento di Miike sia indiscutibile, la sensazione che qualcuno abbia volutamente esagerato rimane.


Le interpretazioni del cast, specialmente quella di Billy Drago (mio attore di culto, sebbene vagamente incapace), vanno per alti e bassi. I membri giapponesi sono assai bravi, specialmente l’allucinatissima Youki Kudoh. Altri vanno peggio con il culmine di un protagonista, proprio Billy Drago, assolutamente fuori parte. Poco importa. Lo strano fascino del film cattura tutti, le urla del supplizio con gli aghi cancellano ogni visibile difetto. L’apparato coloristico è semplice ma stupendo e quasi non si nota l’esiguo budget a cui il film è costretto ad attingere. Una perla dell’horror, dunque, ma solo per chi è capace di digerirla a dovere (e io non credo di esserne stato capace). Stomaci forti, buona visione!


Se ti è piaciuto guarda anche... – Assolutamente Audition (1999) e Visitor Q (2001) di Takashi Miike, capolavoro del maestro. Volendo ritrovare lo stringente metodo dialettico, la chiara ispirazione del film è Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Per le derive body horror consigliamo il raro Basket Case (1982) di Frank Henenlotter e il disturbante Society (1989) di Brian Yuzna, insieme a Brood (1979) e Videodrome (1983) di David Cronenberg. Teatralità e perturbante sono al centro del classico horror Suspiria (1977) di Dario Argento, mentre il devastante horror Dumplings (2004) di Fruit Chan adotta registri del tutto diversi ma non dissimili da Imprint. Concludo la rassegna horror ccon il malatissimo Schramm (1994) di Jörg Buttgereit. 


Scena cult – Diciamo la tortura con gli aghi, scena madre del film. Non che sia la parte più disturbante…

Canzone cult – A esclusione delle urla strazianti, nulla.

venerdì 13 settembre 2013

PASSION (2012), Brian De Palma


USA, Francia, Germania, 2012
Regia: Brian De Palma
Cast: Noomi Rapace, Rachel McAdams, Karoline Herfurth, Paul Anderson, Rainer Bock, Benjamin Sadler
Sceneggiatura: Brian De Palma, Natalie Carter


Trama (im)modesta – Isabelle lavora a Berlino per un’importantissima agenzia pubblicitaria, la sua superiore, Christine, le è prima amica, poi comincia ad approfittarsi del suo lavoro e, infine, quando Isabelle proverà a ribellarsi, la tormenta con il mobbing più estremo. Al che Isabelle decide di vendicarsi mettendo in scena l’omicidio perfetto. Ma non ha certo considerato che altri possano essere sulle sue tracce come lei è su quelle di Christine…


La mia (im)modesta opinione – Miracoli del cinema. De Palma, dopo una fase di imprecisata latenza, torna ai fasti dei suoi grandi, spietati film degli anni d’oro. Questo suo Passion è un capolavoro alla De Palma come lo erano Omicidio a Luci Rosse, Vestito per Uccidere, Obsession e Le due sorelle. Il film non è originale, certo: è il remake del francese Crime d’Amour diretto da Alain Corneau. Dico remake e dovrei dire libera ispirazione. Già, perché il film di De Palma prende la scolastica sceneggiatura e regia del film di Corneau e, poco intaccando il più basilare impianto narrativo, lo rivoluziona da capo a piedi, ne emenda ogni errore, lo approfondisce con tematiche non da poco come gli spionaggi della tecnologia, l’inarrestabilità della colpa e del delitto, le dinamiche del potere e degli affetti.


Insomma, dove il film di Corneau si presentava come nuda e cruda narrazione di fatti, impersonale resoconto di una partita a scacchi, De Palma approfondisce e arricchisce, l'insipienza stilistica del primo film viene ricambiata in puro manierismo visivo dal secondo. Tutto il cinismo che la storia trasmette è fatto lucido ed elegante da una regia estetizzante e lucidissima. I personaggi, tanto abbozzati nell’originale, qui sono notevolmente ispessiti: adesso Christine si sdilinquisce in storie strappalacrime dei suoi trami infantili, ha un debole per il sadomaso iperpatinato, costringe l’amante a indossare una maschera con le sue fattezze durante l’amplesso. Anche Isabelle è approfondita, non più signora di freddezza ma sorta di Macbeth in gonnella, che si spinge, suo malgrado, sempre più a fondo nei meandri di nequizia e omicidio.


Il lato stilistico, poi, è sublime. Tutti gli espedienti dell’espressionismo noir (inquadrature sbieche, luce accecante che filtra dalle tapparelle zebrando le scene di tenebra) si riversano su una fotografia dove predominano il bianco raggelante e il blu. Sempre sulla pista dello straniamento si muovono moltissime scene, fra cui la miracolosa sequenza in split-screen dell’omicidio affiancata al balletto classico. Affascinante è poi la tematica del doppio, con i tratti psicologici che si proiettano e moltiplicano in mille direzioni. Così il personaggio dell’assistente Dani replica le derive psicologiche di Isabelle che invece proietta sullo spettro di Christine il proprio senso di colpa.


Né non potrebbe notarsi di come man mano che Isabelle proceda nella sua discesa verso la follia omicida, il film s’immanierisca, i colori e scene diventino progressivamente più teatrali e bizzarri, le situazioni più oniriche. Importante e complicato sarebbe il tema sviluppato della differenza fra occhio e telecamera che il film mette in scena. Gli occhi fisici, tramite delle passioni (in questo caso, quelle efferate), e quelli elettronici, che sconfessano ogni menzogna. Due tipi diversi di narratori: l’occhio organico è quello che mente, il subconscio che fa sembrare tutto un sogno, quello che accosta idealmente l’assassinio alle vezzosità muliebri del balletto, quello che traspare (unica cosa) dalla maschera che Christine fa indossare agli altri; l’occhio tecnologico invece è quello razionale, che partecipa a intrighi e sberleffi, quello che spia in silenzio ed è l’unico testimone possibile di una verità altrimenti contraffatta.


Il lato artistico che già abbiamo elogiato è magnificato ulteriormente dalla splendida colonna sonora dell’italiano Pino Donaggio, dal sapore vagamente retrò. Insomma, Passion è la prova non solo del talento visivo di un autore il cui stile aveva accusato qualche abbassamento da qualche tempo a questa parte, ma anche della capacità dell’arte cinematografica di creare, a partire dalla medesima storia, due film assolutamente diversi e quasi opposti: dove Corneau ostenta aridità di stile, De Palma gonfia ogni frame con infiniti gorgheggi visivi; se la musica del primo era un complemento quasi scomodo, qui diventa complessa protagonista invisibile; se i temi erano bellamente ignorati da uno, ora sono incredibilmente approfonditi dall’altro.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente l’originale Crime d’Amour (2010) di Alain Corneau, accompagnato dai capolavori del noir di De Palma: Omicidio a Luci Rosse (1984) e Vestito per Uccidere (1980). Consigliamo poi The Truth About Emanuel (2013) di Francesca Gregorini, il trash d’epoca Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven e il gran lavorone Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick. C’è poi l’ottimo Mulholland Drive (2001) di David Lynch, il più torbido e disimpegnato Sex Crimes (1998) di John McNaughton e, per concludere, la gemma francese Nathalie (2003) di Anne Fontaine.


Scena cult – Il finale da palpitazioni cardiache, fra sangue, visioni e rivelazioni, la scena del balletto/omicidio in split screen.

Canzone cult – Il civettuolo Prélude à L'après-Midi d'un Faune di Claude Debussy.

mercoledì 11 settembre 2013

STAR TREK: INTO DARKNESS (2013), J.J. Abrams


USA, 2013
Regia: J.J. Abrams
Cast: Chris Pine, Zachary Quinto, Benedict Cumberbatch, Zoe Saldana, Karl Urban, John Cho, Anton Yelchin, Peter Weller
Sceneggiatura: Roberto Orci, Alex Kurtzman, Damon Lindelof


Trama (im)modesta – Dopo una rocambolesca missione salvata per il rotto della cuffia, con annesse gravissime infrazioni alle regole della Flotta, il capitano Kirk viene degradato e l’Enterprise gli viene tolta. Ma nuovi problemi si affacciano all’orizzonte: un capitano della Flotta, tale John Harrison, terrorizza la città con attentati terroristici, uccide a San Francisco gli alti ranghi della Flotta e poi si teletrasporta su Kronos, pianeta disabitato nella pericolosa area dell’Impero Klingon, già sul piede di guerra con gli esseri umani. Kirk viene subito richiamato in servizio e riassegnato all’Enterprise con il compito di recuperare Harrison senza destare la minima attenzione. Ma dopo numerosi pericoli scampati e dopo l’arresto di Harrison, l’intera ciurma dell’Enterprise imparerà a temere anche dai più insospettabili.


La mia (im)modesta opinione – Okay, il primo Star Trek era una violenta figata, che ha segnato insieme la rinascita del genere space opera (precocemente sepolto dal subisso degli Star Wars) e lo svecchiamento di un franchise che, dopo un mirabile percorso, prendeva già la curva discendente della propria parabola. Inoltre la giustificazione fantascientifica del film con la storia delle linee temporali alterate era una oggettiva genialata. Questo nuovo capitolo della saga alza ulteriormente il livello di spettacolarità e intrattenimento ma accusa, a livello di svolgimento, i primi segni di una certa stanchezza che non riesce a farlo diventare il film fottutamente (scusate il francesismo) epico che io mi sarei aspettato, fermo il fatto che stiamo parlando di una delle megaproduzioni più spettacolari mai fatte.


Metà della storia la tiene sulle spalle Benedict Cumberbatch. Uno che non è esattamente Channing Tatum ma è comunque paurosamente figo. Un cattivo, il suo John Harrison/Khan, a cui manca tanto così dall’essere diventato una leggenda assoluta al pari del Joker di Ledger. Cumberbatch si diverte da matti a far la parte del superuomo nerovestito, longilineo e spietato. La sua è una parte assai teatrale, un ruolo che avrebbe potuto essere faraonico se non ci fosse stato il problema del minutaggio, che ha costretto a strizzare il suo supercattivo in mezzo a un cast corale di cui in effetti poco ci interessava. Zoe Saldana è alquanto insignificante per quanto brava, lo stesso si dica per Simon Pegg che prova a gigioneggiare alla meglio e (so che inorridirete) per Spock, che si cerca di caratterizzare alquanto goffamente senza, per altro, riuscirvi, nonostante la validissima interpretazione di Zachary Quinto.


Del resto possiamo anche non parlare. Certo, il film sarebbe stato il triplo più figo se Kirk fosse morto alla fine (come tutto, in effetti, dava a credere) e avessero evitato di mettere il personaggio di Carol Marcus il cui unico contributo al film è quello di apparire in déshabillé per un fugacissimo momento. J.J. Abrams è parecchio coinvolto, invece, e la sua regia è risulta mobile e vorticosa, capace di far svolgere la trama senza perdite di tempo e garantendo allo spettatore i necessari minuti di pausa e svago per godersi lo spettacolo senza inseguire inutilmente le mille evoluzioni della storia. E certe scene sono francamente emozionanti: Spock nel vulcano, la nave interstellare che precipita su San Francisco, l’ansiogena apparizione di John Harrison/Khan, il prologo al cardiopalma, tutte le scene con Benedict Cumberbatch che causa devastazione e morte (ho già detto che metà della pellicola regge sulla sua awesomeness?)


Star Trek – Into Darkness è, in definitiva, uno dei migliori blockbuster della stagione passata. Pericolosamente vicino alla leggenda e insieme troppo maledettamente lontano per chiare esigenze commerciali (Kirk deve sopravvivere, le belle ragazze in gonna corta devono esserci, Spock deve essere caratterizzato per forza) e una sola punta di cattivo gusto: l’apparizione (ancora?) di Leonard Nimoy, un santo più che un attore per la pazienza che porta a recitare a ottantadue anni suonati ancora Spock e a essere ricordato solo per un singolo franchise terminato anni e anni fa. Dunque: da guardare assolutamente per due ore di rapimento interstellare e avventure mozzafiato, ma a queste sensazioni non si aggiungerà l’esaltazione cinefila che invece il primo film di ci dava (sebbene in discreta misura) e questo secondo avrebbe potuto fare schizzare alle vette più eccelse.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il grande sci-fi. Ovviamente il primo Star Trek (2009) di J.J. Abrams e il vintage Star Trek II – L’ira di Khan (1982) di Nicholas Meyer. Poi, per una rapida rassegna dei miei preferiti, abbiamo 2001: Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick che è il miglior film di fantascienza mai fatto in assoluto; sorvolo sulla saga di Star Wars, troppo celeberrima per aver bisogno di menzione, e mi butto su Sunshine (2007) di Danny Boyle per la sua idea di un cosmo infinito e ostile; seguito con Solaris (1971) di Andrei Tarkovskij, d’inaspettato scavo e complessità. Cito Serenity (2005) di Joss Whedon, per la sua freschezza, insieme allo spietato Starship Troopers (1997) di Paul Veerhoven per quel mix di commentario sociale e spettacolosa follia assolutamente scadente. Non dimentichiamoci poi del tamarro ma stranamente conturbante Il quinto elemento (1997) di Luc Besson.


Scena cult – L’apparizione a Londra di John Harrison, il crollo della nave Vengeance su San Francisco, Spock che si prepara alla morte nel cuore del vulcano.

Canzone cult – Grande colonna sonora ma nessuna traccia degna di gran nota.

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