giovedì 28 novembre 2013

SEX CRIMES (1998), John McNaughton


USA, 1998
Regia: John McNaughton
Cast: Matt Dillon, Kevin Bacon, Neve Campbell, Denise Richards, Bill Murray
Sceneggiatura: Stephen Peters


Trama (im)modesta – Sam Lombardo lavora nel liceo di una cittadina della Florida meridionale. È un membro apprezzato della comunità, almeno fino a quando non viene accusato di stupro da una studentessa: Kelly VanRyan. La polizia non è sicura della veridicità delle accuse, ma un’altra studentessa, Suzie Toller, afferma di aver subito violenze da Lombardo. S’imbastisce un caso, si organizza il processo. Ma un detective, Ray Duquette, sente puzza di bruciato: sotto la vicenda di Sam Lombardo si cela un vero serpaio d’intrighi e cospirazioni. E quando una delle accusatrici sparirà nel nulla, il caso si farà ancora più complicato.


La mia (im)modesta opinioneSex Crimes (brutto titolo italiano, l’originale era Wild Things) è un film grandemente sottovalutato sia dal pubblico che dalla critica. Lo si ricorda vagamente attraverso gli anni, lo si accosta a thriller erotici come Basic Instinct, Attrazione Fatale, Brivido Caldo od Omicidio a Luci Rosse. E, in qualche maniera, si fa bene a farlo perché è a quel genere di neo-noir che Sex Crimes appartiene. Ma laddove i più si aspettano una fragile storia criminosa condita di dettagli osè e sesso gratuito, il film di McNaughton riesce a farsi forte di una sceneggiatura essenziale e ben sviluppata e di una regia fermissima, degna del miglior neo-noir.


Sex Crimes è stato chiamato il thriller più ingarbugliato del suo decennio. È di certo vero: nemmeno nei titoli di coda siamo risparmiati dalla raffica dei colpi di scena e delle rivelazioni. Il gioco del film è astuto. Prende una direzione per farci sentire al sicuro, poi la cambia. Poi ancora un’altra volta e un’altra ancora. I personaggi del dramma sono sempre mutevoli, ma piuttosto che cambiare s’arricchiscono. Così Sam Lombardo, Suzie Toller, Ray Duquette e anche l’infuocata Kelly Van Ryan  appaiono via via in sfumature sempre meno convenzionali e prevedibili per diventare sempre più complessi e stratificati.


Sia chiaro, non bisogna certo aspettarsi dal film una profondità umana tout court, quanto piuttosto un progressivo arricchimento drammatico. E c’è un motivo per cui il titolo originale del film recitava Wild Things, cioè “Creature Selvagge”: tutto il quartetto dei personaggi principali (lo schivo insegnante, le studentesse, il poliziotto) è formato da persone rapaci, feroci come squali. Una partita a scacchi a quattro, un pericoloso paso doble ballato con la morte, questa è la vicenda di Sex Crimes, sempre più oscura man mano che la storia procede, con le scene ambientate alla luce del giorno pian piano sostituite da notturne che poi culminano nella luce accecante dell'oceano della scena finale.


Gli attori sono perfetti per i loro ruoli. Matt Dillon deve essersi divertito un mondo a interpretare lo sfuggente Sam Lombardo e Kevin Bacon non è mai stato tanto dentro la propria parte. Denise Richards fa quello che sa far meglio, cioè la femmina da schianto, e non le si domanda di più, Neve Campbell conferma il suo status di icona alternativa degli anni ’90 al cinema. I suoi ruoli nella saga di Scream, nel dramma Studio 54 e in questo noir la confermano come attrice versatile e complessa, peccato sia scomparsa dalle scene dopo il Millennio.


La colonna sonora è un altro punto a favore della pellicola: torbidissimi sassofoni, atmosfere torride e spettrali. E nemmeno fotografia e costumi scherzano: perfetti per creare l’indispensabile atmosfera afosa e umida della cittadina della Florida. Sex Crimes è un perfetto southern gothic, arroventato e sottile al punto giusto. Impensabile vantaggio è il taglio di alcune delle scene più spregiudicate dall’edizione italiana che cancella di colpo l’allure di thriller erotico con null’altro da offrire che i seni nudi di Denise Richards (e che seni!) e carne scoperta dell’intero cast. Ultimo, indispensabile tocco autoriale lo dà Bill Murray, attore che anche in film come questi si rivela un impagabile caratterista, giustamente adorato da metà dei cineasti indipendenti di Hollywood.


Se ti è piaciuto guarda anche... –  Di certo Bound – Torbido Inganno (1996) di Andy e Lana Wachowski insieme al classico trash Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven e il più ironico e frizzante L'ultima seduzione (1994) di John Dahl. Stravince Brian De Palma con il plasticoso Femme Fatale (2002) e il sicuramente migliore Omicidio a luci rosse (1984). Ricordiamo poi il sottovalutato ma modesto thriller Perfect Stranger (2007) di James Foley insieme al sommo cult anni ’90 Cruel Intentions (1999) di Roger Kumble.


Scena cult – Il tesissimo finale sulla barca a vela. Denise Richards fradicia d’acqua nel salotto di Sam Lombardo.


Canzone cult – La torrida I Had My Chance dei Morphine.

venerdì 8 novembre 2013

TWO MOTHERS (2013), Anne Fontaine


Francia, Australia, 2013
Regia: Anne Fontaine
Cast: Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel, James Frecheville, Ben Mendelsohn
Sceneggiatura: Christopher Hampton, Anne Fontaine


Trama (im)modesta – Lil e Roz sono amiche fin dall’infanzia. Il loro legame è tanto forte da essere tacitamente passionale, assoluto. Vivono da tutta la vita su una spiaggia d’inverosimile bellezza, anche i loro due figli, Ian e Tom, sono amici praticamente da sempre. Ma gli anni passano, le due, da giovani madri, diventano splendide signore di mezz’età, i loro figli due ventenni altrettanto belli. All’improvviso scatta qualcosa, un’attrazione, qualcosa che non sarebbe mai dovuta innescarsi: Roz s’innamora del figlio di Lil, Lil del figlio di Roz. Le due ne parlano, si trovano stranamente soddisfatte della paradossale situazione. Ma il tempo continua a scorrere e il complicato ménage à quatre non potrà durare per sempre...


La mia (im)modesta opinione – S’è detto e ridetto molto su Two Mothers, ultima fatica di Anne Fontaine, regista francese da sempre interessata ai meandri più oscuri della psiche femminile. Molti hanno bollato il suo film come puro trash, un’opera pseudoerotica per signore, una storia conturbante e perversa. È vero. Ma in questo film io ho visto anche di più di un semplice, ozioso esercizio sui pruriti sessuali di due piacenti signore borghesi. Two Mothers è stato accusato di fare psicologia spicciola, di blandire un tabù come questo con un approccio fin troppo carezzevole ed idilliaco per i gusti dei più, di essere in pratica una soap opera arricchita da una grande regia e intensissime interpretazioni. Io non la penso così.


La prima parte del film, quella che descrive lo sbocciare della spinosa situazione, è effettivamente spiazzante per la sua inverosimiglianza. Entrambe le donne, invece di andare su tutte le furie, esitano solo un poco prima di gettarsi nello spinoso entanglement sentimentale l’una con il figlio dell’altra. Ed ha ragione il critico Wesley Moss ad arguire che la storia sarebbe stata di tutt’altro appeal se al posto delle due bionde mozzafiato ci fossero state le ben più modeste Kathy Bates e Barbra Streisand e i due figli non fossero stati due avvenenti surfisti australiani, ma io credo che la questione sia più complessa di così.


Il film è praticamente basato su questi difetti. Si poggia per intero sulla bellezza patinata di luoghi e protagonisti, né al di fuori di questa avrebbe particolare ragion d’essere. E trovo io stesso scandalosa la maniera in cui è presentato questa sorta di incubo edipico. Ma questo diventa un punto di vantaggio per la partenza del film: era dai tempi de La Pianista di Haneke che non provavo un turbamento morale talmente sottile e profondo. Una volta che lo spettatore è preso all’uncino, meravigliato e terrificato insieme, la Fontaine sferra il suo colpo. E nella seconda ora della pellicola la vicenda si capovolge rimanendo stranamente la stessa.


Adesso i loro figli sono grandi, devono vivere la propria vita, devono per forza uscire dall’utero ibrido di questo sogno estivo in cui sono rimasti raggomitolati due anni. Entrambi si sposano, entrambi hanno figli. E si direbbe allora che il peggio è passato, che il legame s’è freddato ed è morto come era giusto che accadesse. Sbagliato, terribilmente sbagliato. La relazione in cui tutti e quattro sono sinistramente allacciati è inestricabile, adamantina. Tutti gli altri personaggi della storia non sono semplicemente esclusi da questo rapporto, ma lo spettatore li sente come spiacevoli incomodi, addizioni inutili a un rapporto che, per quanto profondamente sbagliato su tutti i livelli, trovava una sua perfetta armonia chiuso com’era in se stesso.


Il risultato è il più sognante di tutti. Estate per sempre, sogno perpetuo. Le convenzioni sociali, anche le più salde e universalmente riconosciute, crollano come un castello di carte. Non c’è spazio, in questo film, per il sentire comune, per il socialmente accettabile. Esistono cose talmente viscerali e sanguigne, cose che esistono e basta con così profonda prepotenza che negano l’esistenza di qualsiasi altra istituzione o magistero. Il rapporto d’amore fra le madri e i figli è davvero edipico, nel senso più sofocleo del termine: deve semplicemente accadere, non può essere eluso. Tutto odora d’atavico, di destinato, di scritto nel sangue stesso dei suoi protagonisti. E interessante è vedere come le figlie di Ian e Tom siano anch’esse due bambine, in tutto simili alle versioni bambine di Lil e Roz che il film ci mostra nel suo incipt.


L’agognato ritorno all’infanzia, la pace della carne, il riposo dello spirito. Una giovinezza che è sempreverde. Tutto condito con sottile perversione e grande scavo psicologico sia da parte della regia che da parte del cast mozzafiato. La prima coppia gioca tutta sul contrasto delle bellezze: maestosa e olimpica è la Giunone di Robin Wright, contrapposta a Naomi Watts, creatura eterea e nervosa. I loro due figli non sono certo da meno. Xavier Samuel (attore che promette grandissime cose) è completamente a suo agio nella parte d’efebo languoroso e passionale, mentre la sua controparte, il più membruto James Frecheville, è placido come uno specchio d’acqua, dietro i suoi occhi verdi si nasconde una passione freddamente scandita, calcolata.


Tutti bellissimi, tutto bellissimo. L’ambientazione stessa è da cartolina. Anne Fontaine è impetuosamente innamorata del glorioso paesaggio del New South Wales, delle sue spiagge infinite, delle sue onde di lapislazzulo. È innamorata degli sguardi delle due protagoniste e dei corpi d’atleta di Samuel e Frecheville. Quella ricercata dal film è raramente una bellezza costruita, artisticamente complessa quanto più un richiamo ancestrale alle meraviglie della Natura. Proprio la Natura, la spettacolare vista sulle baie australiane, sul potere delle onde domate dalle tavole da surf, è avvertita come una quinta protagonista del film – un film che è pieno di luce dorata, grazie a una fotografia radiosa, travolgente.


Che si legga in Two Mothers ciò che si vuole. Che lo si accusi di tutto: morbosità, celebrazione dell’immorale, faciloneria narrativa. Ma quello della Fontaine è un film profondamente francese, riflessivo, intuitivo, gonfio d’innuendi e pacate caratterizzazioni, tutte affidate alle due fuoriclasse Robin Wright e Naomi Watts che hanno ruoli difficilissimi: un filo di emotività in più e la pellicola sarebbe diventata un melodramma urlato di gusto balordo, un filo di emotività in meno e avremmo avuto davanti un prodotto facilmente sensazionalistico. Invece la regia è elegantissima, le interpretazioni calibrate con una perfezione che non vedevo da tempo, la sceneggiatura convenientemente essenziale eppure profonda.


Two Mothers è un film che ho trovato difficile, ammorbante. Malioso e spaventoso insieme, una vera sfida gettata in faccia alla morale comune. Probabilmente sarò il suo unico difensore, poco m’importa. Ho voluto detestare questo film con tutte le mie forze e non ci sono semplicemente riuscito. Troppo coinvolgente, troppo fine per essere una bufala. Magari è una mia impressione, magari è vero quello che dice il resto del mondo. Ma in fondo sono sempre stato un tipo dai gusti cavillosi e dagli strambi capricci. Invito tutti a guardarlo e dare un giudizio, entusiasta o disgustato che sia. Ma, delusione o no, non è un film che non vale la pena guardare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho citato La Pianista (2001) di Michael Haneke, come analisi della psiche femminile assai vicina a questo film. Altro spettacolare studio è il conturbante Diario di uno scandalo (2006) di Richard Eyre. Altrettanto fascinoso è il fantascientifico Womb (2010), Benedek Fliegauf ed impossibile sarebbe non citare il classico Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott. Non dimentichiamo il prezioso Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola e il più indipendente e torbido Cracks (2009) di Jordan Scott. Assai consigliati sono anche Swimming Pool (2003) di François Ozon e Nathalie... (2003) sempre di Anne Fontaine.


Scena cult – Gli ultimi quindici minuti. L’ultima sequenza è di rara intensità.

Canzone cult – Il leitmotiv In These Shoes? di Kirsty MacColl

giovedì 7 novembre 2013

COME TI SPACCIO LA FAMIGLIA (2013), Rawson Marshall Thurber


USA, 2013
Regia: Rawson Marshall Thurber
Cast: Jason Sudeikis, Jennifer Aniston, Emma Roberts, Will Poulter, Nick Offerman
Sceneggiatura: Bob Fisher, Steve Faber, Sean Anders, John Morris


Trama (im)modesta – David è un piccolo spacciatore di marijuana con una vita semplice ma vuota. Un giorno viene derubato da una banda di teppisti che gli porta via soldi e droga. Per farsi perdonare dal suo eccentrico grossista, David dovrà trasportare un carico di droga attraverso la frontiera messicana. Il compito è difficile, il rischio è grosso. Per portare a termine la missione sano e salvo, David deciderà di farsi passare per padre di famiglia. Recluterà una stripper, una scappata di casa e un diciottenne sprovveduto per far finta di essere l’allegra famiglia Miller e non destare sospetti alla dogana. Tutto, eccettuata qualche disavventura, pare andare per il meglio, ma il gruppo fa arrabbiare un signore della droga locale, che giura vendetta...


La mia (im)modesta opinioneWe’re the Millers (orribile il titolo della traduzione italiana) ha avuto grande successo così al cinema come nella blogosfera. I pregi al film non mancano di certo, ma altrettanto certamente si può dire che il film di Thurber (già direttore del tollerabile Dodgeball) non sia del tutto esente da difetti, sebbene quella che abbiamo fra le mani sia una delle commedie commerciali più riuscite dell'anno. La pellicola intera si regge sullo strepitoso cast e sui guizzi di una sceneggiatura che risente della presenza di troppi autori e può essere accusata di inoffensiva ma un po’ fastidiosa incoerenza stilistica.


Il film non è stabile. Passa da cultura pop e caustica irriverenza alla demenzialità più balorda con facilità francamente disarmante. Non parliamo poi della vena assai larvata di moralismo su cui la vicenda culmina: sono i fuochi del Quattro Luglio a permettere al protagonista di salvare la situazione, a liberarsi del solito cattivone messicano (chissà perché il cattivone americano è un ilare gigione e quello messicano un masnadiere vendicativo e basta) e a conquistare la donna dei suoi sogni. Anche il lieto fine, con paternalistica inclusione del nucleo familiare autonomo nella società costituita (nonostante un buon salvataggio in calcio d’angolo) puzza di moralismo facilotto. Peccato, il film si era condotto proprio bene: acidissimo e dissacrante quasi senza la minima interruzione.


Le scivolate di gusto, poi, denunciano una regia facilmente sensazionalistica e dal palato grosso. Non parlo del premiatissimo striptease di Jennifer Aniston (potrebbe far bollire l’acqua della pasta, con quella lingerie addosso), quanto piuttosto dell’ingenuo deus ex machina durante la scena del controllo alla dogana e al francamente poco necessario nudo frontale dell'attore rivelazione Will Poulter con close-up sulle sue parti basse. Una mossa decisamente becera. Poco piacevole anche la gratuità di qualche scena qui e là e la già detta ingenuità dei punti nodali della trama.


Ma non ci sono solo difetti, in questo film. E, tutto sommato, We’re the Millers si dimostra una commedia commerciale ma ben al di sopra della media. Con un certo gusto del trash à-la-Seth McFarlane e che regala momenti di genuine risate, specialmente quando la famiglia Miller al gran completo deve impegnarsi a mantenere in piedi la copertura. Il cast, come ho già detto, è il più grande valore della pellicola (meraviglioso Nick Offerman) sebbene piegato alle voglie un po’ pecorecce di una regia che avrebbe tratto profitto da una maggiore finesse di messinscena. Ma pazienza. Per un po’ di sane risate, qualche difetto (grosso, ma a cui siamo abituati) può anche essere perdonato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Perla della comicità trash è Babbo bastardo (2003) di Terry Zwigoff insieme anche a Suxbad: Tre menti sopra il pelo (2007) di Greg Mottola. Altri esemplari “eccellenti” il campionario ne offre: American Pie (1999) di Paul Weitz, il parodico Non è un'altra stupida commedia americana (2001) di Joel Gallen, Rat Race (2001) di Jerry Zucker e Vacanze di sangue (2004) di Jay Chandrasekhar. Per il genere dei family trips consigliamo poi i grandi classici Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris e National Lampoon's Vacation (1983) di Harold Ramis.


Scena cult – La “lezione di baci” al verginello Kenny, lo striptease di Jennifer Aniston.

Canzone cult – Tre su tutte: Waterfall delle TLC, Sweet Emotion degli Aerosmith e la grintosa Put the Gun Down di ZZ Ward.

sabato 2 novembre 2013

L'EVOCAZIONE - The Conjuring (2013), James Wan


USA, 2013
Regia: James Wan
Cast: Patrick Wilson, Vera Farmiga, Lili Taylor, Ron Livingston, Shanley Caswell
Sceneggiatura: Chad Hayes, Carey Hayes


Trama (im)modesta – Anni ’70. La ridente famiglia Perron si trasferisce in una lussuosa villa isolata. Già dalla prima notte, iniziano ad accadere fenomeni dei più inquietanti: le stanze sono fredde come ghiacciaie anche se il riscaldamento pompa al massimo, uno strano odore di putrefazione impregna la casa, il cane di casa muore misteriosamente insieme a molti uccelli che si schiantano contro le pareti della casa, la madre Carolyn si sveglia ricoperta di lividi misteriosi, tutti in casa hanno la disturbante sensazione di essere perseguitati da un estraneo che li afferra con violenza, rompe oggetti. Sempre più vicini all’orlo del baratro, i Perron si rivolgono a Ed e Lorraine Warren, coppia di investigatori del paranormale, che indagano e dichiarano la casa posseduta da un’entità malevola di natura demoniaca. Dovrà eseguirsi un esorcismo. Ma lo spirito che infesta la casa non è disposto a farsi sconfiggere così facilmente…


La mia (im)modesta opinione – Ho apprezzato molto The Conjuring. Non che mi abbia spaventato troppo o mi abbia sorpreso con scelte particolarmente audaci, ma seguo la carriera di James Wan da un po’ e il suo film, sebbene non all’altezza di altre chicche come Saw o Insidious, è un horror di gran classe, guidato da una mano elegante ed esperta dei meccanismi del genere e che nemmeno si priva di una certa verve inventiva (stuzzicanti e saporose le trovate del nascondino, della bambola Annabelle e della sua maledizione) senza però precipitare in clamorosi scivoloni.


L’atmosfera anni ’70 è azzeccatissima e l’accoppiata Farmiga/Wilson funziona ottimamente. Ed e Lorraine Warren sono una coppia forte, affiatata. Vera Farmiga offre un’interpretazione misurata ma convinta e convincente, poco più debole risulta Patrick Wilson mentre highlight della pellicola è Lily Taylor: vediamo tutti gli stadi discendenti della sua possessione, la sua versione demoniaca è convincente e forte. Mediocre il resto del cast, senza particolari infamia o lode.


Indovinate pure scenografia e fotografia. The Conjuring non è un horror rivoluzionario o particolarmente al di sopra della media ma è onesto, raffinato nel suo non esagerare con dettagli macabri o violenti scegliendo piuttosto di costruire pian piano la tensione tramite l’accrescimento progressivo dell’attività di spettri. Il miglior horror della stagione? Ci penserei due volte prima di affibbiargli il titolo, ma è certo uno dei più notevoli.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Naturalmente la perla retrò Gli Invasati (1963) di Robert Wise e il sottovalutatissimo The Amityville Horror (2005) di Andrew Douglas. Sempre di James Wan abbiamo il notevole Insidious (2010). Non si dimentichi il grande classico Poltergeist - Demoniache presenze (1982) di Tobe Hooper e il più moderno 1408 (2007) di Mikael Håfström insieme al valido Il mai nato (2009) di David S. Goyer. Cito poi Il Custode (2005) sempre di Tobe Hooper e il classico moderno The Others (2001) di Alejandro Amenábar.


Scena cult – L’esorcismo, il nascondino nel buio, i fenomeni poltergeist.

Canzone cult – Non pervenuta.

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