giovedì 30 agosto 2012

RAGAZZI FUORI (1990), Marco Risi


Italia, 1990
Regia: Marco Risi
Cast: Francesco Benigno, Alessandra Di Sanzo, Roberto Mariano, Maurizio Prollo, Alfredo Li Bassi, Salvatore Termini
Sceneggiatura: Marco Risi, Aurelio Grimaldi


Trama (im)modesta – Usciti dalle celle del carcere di Malaspina o comunque con un passato burrascoso alle spalle, un gruppo di ragazzi torna nel mondo (una Palermo ora civitasdei ora Babele polverosa) per ricostruirsi una vita ma, amaramente, si scontra ogni giorno con i propri trascorsi che si rifiutano di gettare ombre sulla loro vita disagiata. Dunque c’è Natale che si dà alla vita della strada, Antonino viene perseguitato ingiustamente sia dalla legge che dalla sorte e si mette a spacciare droga, il travestito Mery, accusato di tentato omicidio, continua a prostituirsi ma, passata la maggiore età, viene rimandato in prigione, Claudio, ragazzo padre, si sposa e lavora come meccanico fino a quando non incorre nella vendetta di Carmelo e lo stesso accade a Giovanni “King Kong” Trapani sacrificato inutilmente per un crimine di strada.


La mia (im)modesta opinione – Necessario sequel del già forte Mery per sempre, che fotografava con spietatezza le vite e le molte morti che attraversavano senza posa i giovani figli della criminosa suburbia palermitana con i loro dolori, le loro avventure, i loro lutti, questo Ragazzi Fuori riprende il discorso del suo predecessore e lo rinforza, lo tinge di colori più foschi, lo immerge in un luogo più caotico, una Palermo remotamente bella e disperatamente maledetta, un purgatorio di anime innumerevoli che ha smesso di conoscere qualsiasi forma di speranza arrotato com’è dal crimine da una parte e, dall’altra, vessata dalle sferzate di una legge stupida, negriera, imposta dall’alto come una gogna a cui si cerca di non sottostare. Ma, va detto, la mancanza di dialogo fra il popolo e la legge, per tramite dei suoi ministri e ufficiali, è solo il primo gradino, il più piccolo, di un’altra grande piramide che trova la sua base nella distanza della gente della strada dalle istituzioni, viste come crudeli e disinteressate, e il suo culmine nel fato, nella divinità, addirittura, che non solo sono assenti ma sono avverse e senza un briciolo di misericordia si accaniscono su chi ha già perso tutto.


Ragazzi Fuori è un film angosciante, dall’incedere tragico. Un film, dunque, che è anche profondamente siciliano, dalla testa ai piedi, sia nella sua vernacola comicità (che però è parte integrante dell’organismo tragico) sia in quel senso di fatale ineluttabilità che si sposa con morti e amori vissuti con lo spasimo che può solo derivare dalla disperazione. Ho detto che Ragazzi Fuori è un film profondamente siciliano, e forse non mi si può capire. Forse non potrebbe mai capire chi siciliano non lo è; e forse non potrebbe essere compreso il fatto che tutto ciò che il film mette in mostra (omicidi, carità, stupri, amplessi) fa parte dell’anima di una cultura antica e ardente dove frodi saracene si vanno mescolando a onori normanni e drammi spagnoleschi. Ragazzi Fuori vive fino in fondo le odissee dei poveri cristi, dei vinti e degli offesi, dipinge alla perfezione il sogno verde e lussureggiante di un popolo che, contro la vita impietosa, si arma di ironia e voluttà ma che non fa che scontrarsi contro muri selciosi e colossali labirinti cittadini dove dolore e crudeltà si mescolano a brividi di poesia e lacrime, ingoiate in privato.


È stato rimproverato, in effetti, al regista e alla pellicola in generale questa claustrofobia della speranza, questo suo essere radicalmente pessimista e negativo, questo suo sbriciolare o per crudeltà o per amarezza tutte le illusioni come un bambino sbriciolerebbe le ali di una farfalla. Un pessimismo che forse è fine a se stesso ma che, in definitiva, non si può che riconoscere come indissolubilmente legato a una realtà umana e spirituale che i più ignorano o, per meglio dire, che preferiscono ignorare. Non esiste borghese che abbia mai veramente posato lo sguardo sul labirinto della suburra del mondo – una suburra con le mani sporche di sangue e lo sguardo rivolto così prepotentemente al cielo – e già in questo film la visione fugace di un padre incravattato che conduce la figlia a scuola o di banali clienti di un bar, clienti appartenenti al mondo dei regolari, dei salvi, dei santi, forse, appare stridente, bizzarro, quasi inappropriato come un miscuglio umano un po’ adultero e sbagliato.


Come spesso succede, l’aspirazione radicale di aderenza alla realtà trabocca su se stessa ed eccede nel mondo della lirica – non certo la lirica filmica sublime dell’Oltreoceano o dell’Oriente, né quella fredda del Nord Europa con tutte le sue possibili variazioni locali, ma una lirica terricola, verace, quasi brutale che però si svela solo in certi momenti: una canzone fischiettata in una fredda e sola piazzetta, il pianto di un disperato dal fondo di un carcere, due ragazzi che fanno l’amore, tutti tremanti, in un vagone abbandonato, un mesto disadattato che vende il proprio corpo e si tuffa in una fontana. La critica ha definito l’opera di Risi neo-neorealismo: aveva ragione. Le aspirazioni sono le stesse ma non solo sono raggiunte con maggiore efficacia ma l’affresco dipinto a colori più vividi, più variegati, più aderenti a una realtà di estatico stupore, quieta contemplazione e indicibile violenza. Guardate Ragazzi Fuori: è la vita su cui, non guardandolo, non potreste mai più posare lo sguardo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Dunque, essendo Ragazzi Fuori un sequel, non si può che raccomandare il validissimo film originale ovvero Mery per sempre (1989) di Marco Risi. Un vago parallelismo è intuibile con il ben più esuberante e colorato City of God (2002) di Fernando Meirelles mentre una parentela parecchio più stretta la si ha con Gomorra (2008) di Matteo Garrone, che però differisce dalla cronaca criminale di Risi nel suo desiderio di impegnata denuncia sociale. Similarità di ritratto corale e disperazione assoluta si ha con Kids (1995) di Larry Clarke che, anche se rifugge i toni foschi di Ragazzi Fuori, dipinge una non dissimile gioventù, dannata e quasi facente parte del dedalo di strade e cemento. Ricordiamo, in questa sede, anche i validi film d’oltreoceano Boyz ’n the hood  (1991) di John Singleton e il francese La haine (1995) di Mathieu Kassovitz.


Scena cult – Claudio e Giulia e il loro timido (e non troppo convinto, ma per questo migliore) sesso nel vagone abbandonato.

Canzone cult – Tasto dolente. Meglio non parlarne.

martedì 28 agosto 2012

THE VICIOUS KIND (2009), Lee Toland Krieger


USA, 2009
Regia: Lee Toland Krieger
Cast: Adam Scott, Brittany Snow, Alex Frost, J.K. Simmons, Vittorio Brahm
Sceneggiatura: Lee Toland Krieger


Trama (im)modesta – Ferito quasi a morte dal tradimento della sua compagna, rissoso, tabagista, egocentrico, presuntuoso, misogino, insonne cronico e sinceramente bastardo, Caleb, in occasione del Ringraziamento, dà un passaggio al bonaccione fratello minore Peter e alla sua ragazza Emma fino a casa del padre, che non vede da otto anni, reo di aver distrutto l’unità della famiglia durante un oscuro episodio del passato legato alla madre morta di cancro e a un antico tradimento. Tutto sembra procedere uguale a prima e, effettivamente, come la storia è iniziata così finirà senza cambiamenti esteriori, ma nei pochi giorni del Ringraziamento, Emma sarà testimone dell’inquietantezza e dell’intimo strazio di Caleb, che si è innamorato di lei.


La mia (im)modesta opinioneThe Vicious Kind. Traducibile, in italiano, con un brutto ma efficace La Perniciosa Razza. Questo mio travaso di idioma non è un’oziosa quanto di cattivo gusto, dimostrazione di virtuosismo inutile ma un tentativo di spiegare maggiormente e con più chiarezza gli intenti e le premure del film e soprattutto quale sia la perniciosa razza che il regista/autore si cura di dipingere con tanta vividezza. Ebbene, questo viscerale, per quanto ordinario, dramma familiare, che si consuma e brucia senza pietà ma anche senza troppo rumore, nell’intimità ora delle quattro mura di casa ora per le strade familiari della propria cittadina natale, riesce a catturare con una precisione singolare tutte le sfumature, dolorose il più delle volte, delle dinamiche dell’amore, amore che sia amicizia, agape fraterno, burrascoso amor filiale o disperata (e lacrimata) risacca carnale.


I quattro personaggi che popolano la pellicola sono la sineddoche dell’umanità intera, un’umanità fotografata con forense precisione ma né condannata né irrisa. I protagonisti de The Vicious Kind non suscitano né la nostra riprovazione morale né il nostro disprezzo né il nostro riso impegolati come sono nella stoppia dei loro vizietti, con quei loro polmoni gravidi di colpe e frustrazioni (e nicotina) come quelli di un annegato sono grondanti d’acqua. Ciò che colpisce di più, nonostante tutto, è l’assenza di giudizio morale, lo sguardo compassionevole ma mai buonista o consolatorio che il regista muove su questo piccolo campione d’umanità che vive e patisce i quotidiani martiri imposti dal possesso di sentimenti e memorie e anima. Solo a metà del film capiamo, come comincia a capire anche Emma, di essere finiti in mezzo a un gomitolo di rabbie, delusioni infantili, accuse silenziose e dolorose omertà.


Certo, il caso della famiglia Sinclaire pare abbastanza singolare anche se, tutti coloro che, visto il film, l’avranno sentito, converranno certamente sul fatto che non è diverso da certi drammi domestici che avvengono in casa di amici, forse di parenti, forse anche nelle nostre case, se siamo particolarmente sfortunati, ma che, in sostanza, avvengono e con preoccupante frequenza. Lo stesso discorso può essere applicato ai meccanismi affettivi che la pellicola mette in scena o, direi piuttosto, immortala nella loro dopotutto umana abiezione e vergogna. Come dice il ruvido Donald Sinclaire, patriarca dimezzato di questo triste clan, alla fine del film: «Sometimes people do things that they know are wrong, but they they just do 'em anyway, 'cause to do the right thing might be too painful». L'ammissione di colpa di un’umanità consapevole, dunque, dei propri difetti e delle proprie colpe ma che non può cercare redenzione o perdono e per questo viene solo compresa invece di essere maledetta o sferzata.


A dominare la pellicola sono lo straordinario personaggio di Caleb e la sua incarnazione attoriale, ovvero il superlativo Adam Scott, che cuce nel suo ruolo una carica impressionante di rabbia repressa e dilagante e crea un personaggio straziato dai propri sentimenti come da una muta di cani, vacillante tra una furia distruttiva e un disperato bisogno d’amore e dubbioso persino di ciò che ama e perchè, se la vecchia fiamma che l’ha abbandonato, la nuova fiamma che ha ritrovato o l’idea di una fiamma, una qualsiasi, solo un’altra ragazza dai capelli neri e dai modi spigliati. Tutto groppo di nodi e sentimenti si risolve in una irosa misoginia incartata dentro un avvolto di acido egocentrismo che si tende fino a raggiungere picchi di mania psicotica e ossessiva. Un personaggio, quello di Caleb, che nella sua complessità fa impallidire tutti gli altri suoi inferiori, seppure ancora ottimi, comprimari.


La più vicina per complessità alla figura di Caleb, è Emma, una ragazza fragile, frustrata, debole ma capace di un amore genuino, nonostante il regista la faccia fuggire da qualsiasi stridente e inappropriata angelicatura. Al terzo posto abbiamo il vecchio Donald, paterfamilias fallito, un uomo duro e ruvido ma non meno colpevole del proprio primogenito e, infine, abbiamo l’innocuo ma necessario personaggio di Peter, sprovveduto e verginello fratello minore, il più dolce e delicato di tutti che ha il volto e gli occhi dolcemente sbozzati di Alex Frost, l’angelico spree killer del vansantiano Elephant, e che si ricicla in un ruolo meno truce e pazzoide ma ugualmente vessato e inconsapevolmente triste. Dico triste perché è proprio il personaggio di Peter quello a essere immolato in nome dei sentimenti di questo o quel familiare e, senza che se ne accorga, è l’unico a ritrovarsi umiliato e offeso (moralmente parlando, beninteso) da fratello, padre e fidanzata.


The Vicious Kind è un gran bel film. Un film che fa sicuramente riflettere sulle brutte bestie che siamo, noi esseri umani, quando i nostri sentimenti vanno di mezzo e siamo anche costretti a salvare inutilmente la faccia. E questa umanità è il valore aggiunto del film perché, anche se lo separa dalle vette di parossismo estetico di certi suoi colleghi più agghindati e tirati a lustro (come un Detachment o un Tout est Parfait), riesce a regalare preziosi momenti che scaldano il cuore, forse anche vagamente commoventi a vedersi, come, ad esempio, la cieca amicizia per Caleb del grande e grosso J.T. o il virile affetto che Donald nutre per i propri figli o ancora la candida dolcezza di Emma e l’amore fraterno che lega Peter e Caleb, individui che più diversi non potrebbero certo essere. E, se mi è concessa dopo tanta seriosità una stoccata ironica, posso concludere queste mie righe con il popolare motto: «Dai nemici mi salvi Iddio che dai parenti ci penso io».


Se ti è piaciuto guarda anche... – Quanto a famiglie malinconiche abbiamo il lacrimoso focolare di Rachel Getting Married,(2008) di Jonathan Demme, i burrascosi e risentiti Taylor di Fireflies in the Garden (2008) di Dennis Lee, i tristi coniugi Ryan Gosling e Michelle Williams di Blue Valentine (2010) di Derek Cianfrance, le sventurate sorelle Lisbon de Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola, gli scompagnati matrimoni Ceremony (2010) di Max Winkler e il super vintage clan Henslop de Le nozze di Muriel (1994) di P.J. Hogan.


Scena cult – La chiacchierata fra Caleb e il suo amico J.T. Da sciogliersi il corazòn.

Canzone cult – Stupenda colonna sonora indie-folk. Inziamo con Tyler Ramsey e la sua triste A Long Dream, il gruppo Ocha La Rocha con la meravigliosa Tomorrow Is Coming e Please in F# e ultima, ma non per importanza, abbiamo All of My Trains di Robert Francis.

domenica 26 agosto 2012

JESUS HENRY CHRIST (2012), Dennis Lee


USA, 2012
Regia: Dennis Lee
Cast: Jason Spevack, Toni Colette, Michael Sheen, Samantha Weinstein, Frank Moore
Sceneggiatura: Dennis Lee


Trama (im)modesta – Figlio di una femminista dalla famiglia disastrata, concepito in vitro, Henry James Herman possiede il secondo quoziente intellettivo più alto mai registrato. Sa parlare compiutamente già a nove mesi, ricorda ogni dettaglio della propria vita dal parto in su ma la sua incredibile intelligenza gli causa non pochi problemi: dopo aver scatenato una rissa in un liceo cattolico per aver dichiarato il proprio ateismo, viene espulso. Succede, nello stesso momento, che suo nonno gli riveli l’identità di suo padre, professore universitario divorziato con una figlia depressa. I quattro metteranno su un nucleo familiare bizzarro, nell’attesa che arrivino i tanto sospirati test di paternità.


La mia (im)modesta opinione – Molto è stato detto di Jesus Henry Christ. La maggior parte della critica, sia ufficiale che ufficiosa, lo ha dichiarato una commedia indie, se non del tutto almeno in parte, di maniera, modaiola ma non per questo senza merito alcuno, essendo la pellicola incartata con tanta arte. Non voglio distaccarmi da queste critiche che, più che biasimare la pellicola in sé, ne biasimano intenzioni e propositi ma, a mio presuntuoso parere, non voglio dare credito (almeno in parte) a ciò che si dice. Vero è che, relativamente a questo film, il contenitore è meglio del contenuto e la forma prevale sull’effettiva sostanza. Moltissimi noteranno subitanee depressioni di pensiero dentro il tessuto del film, una certa inconsistenza di qualche personaggio ma tutta recuperata dalla regia disinvolta e ironica di Dennis Lee che, lungi dall’essere un falsificatore molto abile (così è stato dipinto) è un abile artigiano che ha confezionato un prodotto forse modaiolo ma degno di un’ammirazione che molte, miserande altre commedie indie non riescono ad avere.


Jesus Henry Christ è un film spassosissimo, davvero gustoso che riserva anche qualche scena commovente e un paio di sottotrame brillanti, appena tratteggiate ma gestite con grande abilità. Mi riferisco ovviamente alla storia del fratello di Patricia, Jimmy, morto di AIDS contratta in circostanze poco chiare ma certamente attinenti al suo essere gay – un filamento di storia che sarebbe potuto restare lì ma che ritorna alla fine del film con una vecchia fotografia di Jimmy, morente, all’ospedale, che tiene fra le braccia il neonato Henry, episodio di cui Henry non si ricorda, proprio lui che ricorda ogni attimo della sua vita. Più scontate sono le storielle degli altri fratelli e se quella di Billy attinge a un repertorio già visto e rivisto con la figura del “figliol prodigo che torna quando ormai è troppo tardi”, quelle dei due gemelli poliziotti sono sicuramente più divertenti. Altro punto d’onore del film: uno humor nero acidissimo, gestito con eleganza e finezza infinite con la mescolanza di flashback e sequenze apparentemente insignificanti della pellicola.


Certo il film pecca abbastanza spesso di noncuranza deliberata e non ha paura di fare il passo più lungo della gamba (la questione del ritrovamento del padre e il garbuglio familiare sono questioni male chiarite) e, inoltre, la pellicola soffre di una trama abbastanza evanescente che però, curiosamente, si fa più forte nelle infinite digressioni. Deboli sono anche i personaggi del nevrotico Michael Sheen e della diafana Samantha Weinstein nonostante siano stupendamente recitati e ben scritti, da contrappunto a loro stanno la superba Toni Colette (praticamente la Maria Antonietta della commedia indie) e il grandissimo Jason Spevack, giovanissimo attore che pare creato per il ruolo che recita. E un altro, grandissimo pregio del film sono i personaggi da questi ultimi due interpretati, con l’aggiunta del nonno marpione Frank Moore. Tutte le sfumature del complesso personaggio di Henry, enfant prodige di buon cuore e taglienti arguzie, sono toccate da Jason Spevack che domina sia lo schermo che la storia con il suo sguardo profondissimo, ora saggio ora spaurito.


Forte di sequenze brillante, recitato da un quartetto d’attori di primissimo ordine e abbastanza sopra le righe in una maniera che ricorda un Wes Anderson dallo stile meno esorbitante e grottesco (sia sul lato comico che su quello tragico) ma più di carne e di ossa, sebbene sia innegabile che storia e situazioni siano, in una certa misura, manierate e “finte”, Jesus Henry Christ è un film non immancabile ma certamente da vedere per chiunque ami le commedie indie. Ovviamente però i principi del genere restano altri e la pellicola di Lee deve accontentarsi di un secondo, più piccolo podio ma che non toglie troppo alla sua eccellenza. Ci ritroviamo qui di fronte all’ennesimo caso di “weird for the sake of weird” ma, devo dirlo, non ho avvertito nel film quella rutilanza e isterismo che la taccia di bizzarria gli accusa, anzi mi è parso non più sopra le righe di un Amélie, di un Amore e Guerra o di un (500) Giorni Insieme. Dunque, se una sera vorrete qualcosa di raffinato ma le cui finezze non vi esasperino, ebbene, sapete cosa andare a cercare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i principi del genere sono Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, Juno (2007) di Jason Reitman e (500) giorni insieme (2009) di Marc Webb. Altri eccellenti esemplari, offuscati dalla loro mancanza di grande fama mediatica sono Il treno per il Darjeeling (2007) e il grande antenato I Tenenbaum (2001) di Wes Anderson, Thank You for Smoking (2005) di Jason Reitman, La mia vita a Garden State (2004) di Zach Braff. Mentre per il tema “genitori e figli” abbiamo La famiglia Savage (2007) di Tamara Jenkins, I ragazzi stanno bene (2010) di Lisa Cholodenko, l’assai più inquietante ...e ora parliamo di Kevin (2011) di Lynne Ramsay, Submarine (2010) di Richard Ayoade e Alla scoperta di Charlie (2007) di Mike Cahill.


Scena cult – La lunga, stupenda digressione sulla famiglia di Patricia e la scena di Henry e Audrey al luna park.

Canzone cult – Non pervenuta.

venerdì 24 agosto 2012

FRANKLYN (2008), Gerald McMorrow


Regno Unito, 2008
Regia: Gerald McMorrow
Cast: Eva Green, Ryan Philippe, Sam Riley, Bernard Hill, James Faulkner
Sceneggiatura: Gerald McMorrow


Trama (im)modesta – Sotto il cielo freddo e piovoso di Londra, si incrociano le storie di tre personaggi: Emilia, turbolenta e spettrale studentessa d’arte, mette in scena una serie di elaborati suicidi per un progetto d’arte e segue sconosciuti per la strada con la sua videocamera, fra questi sconosciuti c’è Milo, malinconico sognatore, abbandonato dalla fidanzata sull’altare, che vagheggia i propri amori dell’infanzia mentre l’anziano David va alla ricerca del figlio perduto, inghiottito non si sa come dai labirinti della grande città. Nel frattempo, in un’altra realtà, nella gotica Meanwhile City, colossale e tenebrosa, stretta nella garrota di mille, improbabili religioni, l’unico ateo della città, il vigilante Preest va alla ricerca del capo di una setta responsabile della morte di una bambina.


La mia (im)modesta opinioneFranklyn è un film strano, stranissimo. Come sarà capitato a chi legge, scorrendo le due righe da me scritte sulla trama, io stesso mi sono trovato interdetto, forse affascinato da un film che si prometteva visionario e cupo in cui teatravano tre dei miei attori preferiti: l’inglesino chic Sam Riley, la fosca sirena Eva Green e l’antica fiamma Ryan Philippe (che noto essere invecchiato maluccio, ma, si sa, per le fole dell’infanzia c’è sempre un posto nel mio personale pantheon). Dopo averlo visto e, mentre lo vedevo, sognato, posso tranquillamente dire che Franklyn è sì un film piccolo, quasi un ninnolo, un pendentucolo ma lavorato con tanta e geniale finezza, girato così meravigliosamente da farlo diventare un cult personale fondamentale e imprescindibile.


È vero, all’inizio non si capisce come le storie di Emilia, David, Milo e Preest possano trovarsi a colludere in un tutto unitario ed è ancora più vero che si arriva a un punto in cui la confusione è grande, enorme ma la regia di McMorrow riesce non solo a non farci mai perdere il filo ma anche ad ammaliarci e legarci così strettamente alla trama che non si bada né alla bizzarria dell’argomento trattato né all’apparente scompagnatura della storia. E poi il colpo di scena piomba addosso come una mannaia e, dopo il colpo di scena, a film terminato, arriva l’illuminazione definitiva e capiamo quanto la sceneggiatura, vergata dalla stessa mano del regista, sia perfettamente geniale e ricordi tanto da vicino per finezza e brillantezza lo stupendo Memento di Nolan o il malioso Il Teorema del Delirio, esordio del grande Aronofsky.


Primo incanto della pellicola: Meanwhile City. Un delirio steampunk di architetture gotiche contorte e senza fine, una mangrovia di contrafforti, guglie, doccioni svettanti che si arrampicano sopra cupole veneziane che emergono dalla nebbia chimica che infesta strade strette e sovraffollate di uomini mascherati, pin-up anni ’50, energumeni goth, ladruncoli tatuati, predicatori in nero. Un’atmosfera da bazar di spettri, una babele titanica e tenebrosa dove convivono le larve culturali delle epoche più disparate, accomunate tutte da un contagio di follia religiosa ed esaltazione fanatica, unico possibile derivato di esistenze opprimenti e condannate a sputar sangue nella polvere delle alte e aguzze torri, svettanti e impietose. Spettacolare è la maniera di tratteggiare con pochissime parole e parche immagini tutta l’atmosfera d’insano carnevale in cui vive, marcia e danza la folle popolazione della Città del Mentre.


Secondo fascino della pellicola: Eva Green e Sam Riley. La prima, lunare e nevrastenica, si occupa della parte “artistica” della pellicola con il lavoro febbrile, la rabbia cocente, i suicidi orchestrati ad arte  e i maliosi e inquietanti video di se stessa e degli estranei che insegue per le vie della città. Il secondo, dolce  e afflitto, che condisce una pellicola già sognante e sopra le righe con l’impeccabile e raffinatissima classe british della sua figura e delle sue movenze, perennemente alla ricerca di spettri dai capelli rossi e di dorati ricordi d’infanzia. Entrambi, Riley e la Green, due attori straordinari, impagabili capaci di dare sangue e lacrime a una sceneggiatura già di per sé tutta persa nella vertigine di audaci cerebralismi  e spericolate girandole di sogno.


Terzo e fondamentale incanto della pellicola: la straordinaria cinematografia. Franklyn non è un grosso kolossal, anzi tira un’aria da film indipendente delle più gustose, ma tutta la parte tecnica della pellicola, dalla colonna sonora (che mescola musiche oniricheggianti a brani più rock) al freddo tenebroso dell’uggiosa fotografia, è preziosa, brillante, geniale. Non parliamo poi dei suicidi dell’Emilia di Eva Green, sontuosamente fotografati con quei rossi densissimi e quei pallidi, necrotici bianchi che culminano con la commovente messa in scena di un quadro del Caravaggio (la stupenda Morte della Vergine del Louvre) in cui la Green fa la parte della Madonna morta, scena che riecheggerà in una visione che il personaggio della Green avrà nell’ospedale quando andrà a trovare l’inserviente Pastor Bone, figura divina in disguise, sempre intento ad appuntare nomi ed eventi sulla sua agendina nera (il libro della Vita?).


Franklyn è in breve un film fondamentale, razionale e geometrico come il miglior Nolan ma con una vena di malinconia e lirismo in più che gli dà un’aria tutta personale, autoriale di atrabile e inguaribile malinconia. Un film dal messaggio potente e il cui messaggio preferisco non riferire perché, essendo troppo legato agli sviluppi della congegnosa trama, rivelerei tutto. Dirò solo che Franklyn è un film sulle illusioni e sui sogni, sui fantasmi del desiderio e sulle lisergìe della ragione pura, un film che ci dimostra che carne e visione sono la stessa cosa, che favole e spettri camminano accanto a noi sulla strada e che ogni verità, prima di prendere corpo, viene sragionata, delirata e sognata fino a che la colossale larva del Fato, immane e invisibile, mette a posto ogni pedina ma senza dimenticare che noi siamo sia il burattino che s’illude di non essere il burattinaio. Da vedere immancabilmente.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Immancabili compagni di Franklyn sono, senza dubbio alcuno, Paprika (2006) di Satoshi Kon, lo spettacolare The Cell (2000) di Tarsem Singh, Stati di allucinazione (1980) del mitico Ken Russell, il grandissimo Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Il labirinto del Fauno (2006) di Guillermo del Toro. Altri film visionari sono The Fall (2006) sempre del visionario Tarsem Singh, lo stracult eXistenZ (1999) di David Cronenberg, Moon (2009) di Duncan Jones, Enter the Void (2009) di Gaspar Noé e Dark City (1998) di Alex Proyas.


Scena cult – Il primo suicidio di Emilia e la ricomposizione del quadro di Caravaggio.

Canzone cult – Non c’è una canzone vera e propria ma è impossibile non rimanere colpiti dalla musica che commenta il secondo suicidio di Emilia, preceduto da una danza scatenata di Eva Green davanti a una telecamera. 

mercoledì 22 agosto 2012

THE DARK KNIGHT RISES (2012), Christopher Nolan


USA, 2012
Regia: Christopher Nolan
Cast: Christian Bale, Tom Hardy, Anne Hathaway, Gary Oldman, Joseph Gordon-Levitt, Michael Caine, Marion Cotillard, Morgan Freeman, Liam Neeson, Juno Temple, Cillian Murphy
Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan


Trama (im)modesta – Sono passati otto, lunghi anni dalla morte di Harvey Dent e dall’arresto del terrorista Joker. Le strade sono libere dai criminali, il procuratore Dent è osannato come un eroe della lotta al crimine e Batman è scomparso, lasciando il posto a un acciaccato e debole Bruce Wayne, ritiratosi nella sua tenebrosa magione preda di vecchie cicatrici e rimorsi antichi. A sconvolgere questo già precario equilibrio arriva Bane, misterioso mercenario mascherato che, tramite poco chiare alleanze con i vertici dell’amministrazione urbana, aiutato da una riluttante ladra ansiosa di cancellare il proprio passato, manda in bancarotta le industrie Wayne e fa dello stesso Batman un povero storpio dalla schiena spezzata, relegato in una misteriosa prigione ai confini del mondo. Nel frattempo Gotham viene isolata dal resto del mondo, Bane indice uno stato di anarchia più assoluto minacciando le autorità americane con un ordigno nucleare che un misterioso cittadino potrebbe fare esplodere. Ma quando le città cadono, gli eroi si risollevano.


La mia (im)modesta opinione – Il troppo stroppia (quasi) sempre. Nel concludere la sua grande trilogia sull’Uomo Pipistrello, Nolan mette in scena uno spettacolo colossale, epico e sontuoso, servendosi di un cast corale che dirige alla perfezione. Il maggior pregio del film è proprio la regia di Nolan, autore ormai canonico che è stato capace di creare un proprio stile abbastanza discreto e anonimo da piacere alle major del cinema hollywoodiano e insieme così personale da essere riconoscibile per gli estimatori dal palato più fine. The Dark Knight Rises, dunque, è un film maestoso, granitico ma che anche ipertrofizzato e elefantiaco come il taurino Bane di Tom Hardy: la stessa impostazione epica (è forse il film dal respiro più epico e collettivo che abbia mai visto) nel suo imporsi in tutta la sua gigantesca potenza dimostra i propri limiti, sia dal lato di verosimiglianza e credibilità della trama, sia dal lato più strettamente narrativo della faccenda: come Inception, questo nuovo film di Nolan è incredibilmente complicato con storie, sottostorie, retrostorie e conoscenze che derivano dai film precedenti. Dunque, per primo consiglio, suggerisco di andarsi a ripescare il primo, bello Batman Begins e il secondo e assai mirabile The Dark Knight, giusto per mettersi in pari con la storia.


Quanto alla storia, nel senso più stretto del termine, possiamo dire che funziona. Funziona bene, non alla grande per via di pecche nel tessuto stesso della narrazione. Queste pecche possono essere distinte in pecche volontarie, che avrebbero potuto essere evitate, e in quelle involontarie, derivate dallo strizzamento di una storia tanto grande nella considerevole (ma relativamente strettina) durata di centosessantacinque minuti. Quanto alle involontarie, le perdono tutte: sono tutti i problemi di narrazione che sorgono all’inizio del film, ovvero un soverchio di eventi e personaggi che arrivano a ondate tanto rapide da farci sentire il terreno slittare sotto i piedi: prima Bane, protagonista di una scena al cardiopalma che, da sola, rompe il naso a tutti i film di Stallone e Van Damme messi insieme, dunque l'arrivo dei nuovi personaggi che, insieme ai vecchi, cominciano ad affollare il palcoscenico del film, poi i trabocchetti della trama thriller, poi ancora l'incursione  della serica Selina Kyle, con i suoi furti di gioielli e impronte digitali, e poi ancora le miriadi di complotti e omicidi e intrighi e combattimenti fino al primo, spettacolare, gigantesco coup de théâtre in cui Bane, in un momento solenne come un'apocalisse, mette sotto un deciso scacco l'intera città dopo aver distrutto uno stadio da football.


Quanto agli errori volontari, mi trovo purtroppo costretto a condannarli con severità, ma la severità benevolente di un ammiratore colpito e disilluso al contempo. Il problema è la faccenda della prigione misteriosa. Ora, parlandoci chiaro, come fa un uomo seppur straordinario come Bruce Wayne, nell’arco di cinque mesi scarsi, non solo a riprendersi senza assistenza medica specializzata da una frattura esposta della schiena ma anche a essere in grado di scalare una scoscesa parete di pozzo (anche se fallisce due volte) che pare uscita dal miglior episodio di Prince of Persia? E, ammesso e non concesso che Bruce Wayne sia allenato e capace, il problema si pone con la prigione stessa. In primo luogo: ma che paese è? In secondo luogo: che prigione è? I detenuti sono praticamente a casa loro, escono ed entrano dalle celle a piacimento, ma non possono uscire dalla prigione eppure la prigione è rifornita. Insomma come sono arrivati lì? Chi è l’uomo dietro la scrivania? Ma, soprattutto, come fa Bruce Wayne, dopo l’evasione, a tornare a Gotham a piedi da un paese che è chiaramente arabo? E come fa ad arrivare dentro la città assediata se nessuno può entrare o uscire e lui è ricercato? Problemi, problemi senza fine né soluzione.


Ma dopo essermi lagnato dei difetti del film (che comunque non finiscono qui) passiamo a incensarne i più numerosi pregi. Inizierei con una sperticata lode a tutto il cast e alla regia di Nolan oltre che allo stupendo script. Quanto al cast, sapevamo che sarebbe stato più che superlativo, ma Nolan lo magnifica con la sua regia dando a ognuno il proprio posto al sole, senza dimenticarne nessuno. Ogni personaggio è stupendamente scritto, ogni soluzione (più o meno) verosimile e sotto i pompatissimi muscoli dell’action movie si nascondono i tendini e le ossa di un thriller dai risvolti meloeroici che contempla sequenze da puro cult commentate sapientemente da Nolan che, invece di far esplodere musiche coinvolgenti, sceglie di opporre sordi silenzi e scampoli di suono sempre, però, accompagnati dal leitmotiv sonoro del film, una specie di tamburo tribale intonato a inno dai detenuti dell’inverosimile prigione, battuto dalle mani dei prigionieri di Blackhill poco prima di essere liberati, suonato dalle percussioni della colonna sonora nei momenti di maggior tensione. E qui si capisce che Batman ha fatto il passo fatidico: da semplice eroe del fumetto a leggenda dei nostri, bui giorni, in una sorta di apoteosi che lo fa assurgere a riluttante eroe dei tempi moderni.


E grande spessore fa assumere alla pellicola anche il messaggio sociale di cui si fa portatrice. Bane sorge dalle fogne, i suoi soldati sono gli umilissimi – quegli umilissimi stritolati a morte dalla crisi economica e dai tiri a dadi dei banchieri avidi e dagli strangolamenti delle costose cravatte dei politici. Bane è l’eroe dei Caini del ventunesimo secolo che occupa una città, Gotham (stanca di questo nome, non si vede che non è altro che una New York da poco svegliata, infreddolita e ancora vessata dai suoi stessi incubi, che simboleggia tutta la civiltà nord-occidentale e i suoi valori distorti?), la getta in uno stato da Rivoluzione Francese con tanto di tribunali popolari, messa a morte dei più ricchi, saccheggi e distruzione e dà corpo, muscoli e maschera (è il caso di dirlo) a tutto un movimento di rabbia che percorre il popolo del villaggio globale sempre più vessato da tasse e bric-à-brac di governi e borse (Occupy Wall Street vi dice qualcosa?). Emblematico diventa allora l’attacco terroristico alla Borsa, le pubbliche impiccagioni di alti manager, le opulente ville dell'altissima borghesia devastate e date alle fiamme, le signore impellicciate trascinate urlanti per i capelli nella polvere delle strade. Bane istituisce l’anarchia – un’anarchia che il V di Alan Moore avrebbe però definito la “società-del-prendi-e-arraffa” – dove non ci sono regole, tutti possono fare ciò che meglio loro garba e qualsivoglia forma d’autorità è scomparsa. Ancora una volta vediamo, dunque, Nolan vivisezionare con il chirurgico algore delle sue inquadrature il corpo marcio e deliquescente del mondo moderno.


Parlando invece dell’allure di leggenda che permea tutto il film, è chiaramente voluto. Già le origini di Bane e la presenza della prigione misteriosa fanno affondare le radici della pellicola nel terreno della favola e della leggenda. Batman è un eroe ormai passato, non necessario, che si è sacrificato anonimamente e si abbandonato a una scomparsa solitaria. Il riportarlo in vita è per Wayne un inutile quanto doloroso requiem, i tempi di inseguimenti spericolati, esplosioni e caccie selvagge sono passati. Questo lo vediamo bene nel film: Batman si mette la divisa più per rappresentare qualcosa che per essere protetto, lavora di giorno, quando combatte soccombe miseramente sotto i colpi di avversari più giovani e forti ma Batman è ancora un eroe capace di gesti eroici, sovrumani. Al confronto con il suo carattere anche la tosta e raffinatissima gatta ladra di Anne Hathaway impallidisce e diventa un’appendice un po’ inutile che però fa la sua figura. Le vere simpatie Nolan le riserva a Joseph Gordon-Levitt che si ritrova, un po’ per caso un po’ per desiderio, sempre sotto i riflettori a dividere il palco con il giustiziere mascherato.


Dunque fra spettacolari e silenziose inquadrature volanti sulla città che esplode, voli fra i grattacieli specchiati del downtown, incredibili attacchi aerei, furti di gioielli, caverne buie e piani machiavellici il film scorre con la stessa regale e prepotente maestà verso l’epica conclusione che Nolan, come in tutti i suoi film, fa criptica e aperta, priva di dolorosi adii ma insaporita dalla commozione di un arrivederci e chiude con forza ed eleganza una delle più potenti trilogie cinematografiche degli ultimi anni, una trilogia che è riuscita a scandagliare così in profondità nella società e nelle sue nevrosi e ossessioni da far sembrare sciocchezze tutti gli altri film di supereroi o presunti tali che sono tanto in rigoglio nelle nostre sale. Eppure con tutto il suo impianto grandioso, questo The Dark Knight Rises è inferiore sia al fratello maggiore, The Dark Knight, sia al fratellastro Inception che riesce a mantenersi credibile anche nelle più audaci contorsioni sci-fi mentre qui ci viene dato il beneficio di un ampio, enorme dubbio sulla forzatura di questa o quella scena. Va però detto che nonostante questi vizi di andamento, il film supera in spettacolosità e potenza i suoi compagni. Da vedere assolutamente. In fondo anche i grandi poemi epici, spesso, hanno passi meno felici.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i precedenti film della trilogia Batman Begins (2005) e The Dark Knight (2008) sempre di Christopher Nolan. Sempre del maestro Nolan sono imperdibili The Prestige (2006) e Inception (2010). Per film dal respiro epico abbiamo V per Vendetta (2005) di James McTeigue, l’ormai iconico 300 (2006) di Zack Snyder, il sontuoso ma imperfetto Troy (2004) di Wolfgang Petersen, l’altrettanto zoppicamente ma fascinosoe Le crociate (2005) di Ridley Scott e l’Alexander (2004) di Oliver Stone. Rimpinguano la lista Le cronache di Narnia: Il leone, la strega e l'armadio (2005) di Andrew Adamson e Apocalypto (2006) di Mel Gibson.


Scena cult – Imbarazzo della scelta. Dirò, per somma ed epigramma, la spettacolare sequenza iniziale. Da sola vale molti film cosiddetti d’azione messi insieme.

Canzone cult – Grande colonna sonora. No songs, though. 

lunedì 20 agosto 2012

THE DOOR IN THE FLOOR (2004), Tod Williams


USA, 2004
Regia: Tod Williams
Cast: Jeff Bridges, Kim Basinger, Jon Foster, Elle Fanning, Mimi Rogers, Bijou Phillips
Sceneggiatura: Tod Williams


Trama (im)modesta – Ted Cole è un famoso scrittore e illustratore di libri per bambini che vive a Long Island insieme alla figlioletta di quattro anni, Ruth, e alla moglie Marion, da cui sta per divorziare. L’unione della famiglia Cole è andata frantumandosi da quando i due figli maggiori di Ted e Marion sono tragicamente morti in un incidente d’auto lasciando Marion pressoché impazzita e Ted ubriacone e fedifrago. Quando a Ted viene tolta la patente per guida in stato di ebbrezza, a casa Cole arriva lo studente universitario Eddie, aspirante scrittore, che fungerà sia da autista che da assistente a Ted. Ben presto, però, Marion ed Eddie allacceranno una relazione che finirà per degenerare, distruggendo per sempre la famiglia di Ted.


La mia (im)modesta opinione – «The horror, the horror», così mormorava il morente Mr. Kurtz con gli ultimi aliti di vita strappati a coppia ora alle feroci febbri africane ora alle trafitte dell’animo martoriato da morte e terrori. Ed è da un singolo, macabro dettaglio, da una microscopica grinza della storia – una grinza sepolta dalle nevi di un inverno lontano ma che arriccia, con la profondità delle sue pieghe, anche la levigata superfice del presente – che la storia sprigiona ed effonda. Quale sia la natura della sopradetta grinza, cosa la grinza rappresenti e perché, è un arcano che è meglio non svelare e che lascio all’ipotetico spettatore come risolutiva scoperta posta alla fine di questa filmica Corona di Gerione: d’oro massiccio all’apparenza, sì, ma riempita per pigrizia, sciocchezza o avidità di truffaldino argento. Insomma, senza virar troppo al poetico, diremo che The Door in The Floor è un bel film, un film bellissimo, ma che sarebbe stato degno di un maggiore sforzo da parte dell’autore/regista che ha partorito un bambino sano, sì, ma un po’ sotto peso. Solito, odioso caso da «È intelligente ma non si applica». Stupenda pellicola, sì, ma che, specialmente nella parte centrale, si perde un poco e lascia minuscoli nodi irrisolti, senza approfondire a dovere i caratteri e le vicende e abbandonando il lirismo della prima parte per il più crudo realismo della seconda.


The Door in The Floor è il riadattamento della prima sezione del romanzo del grande John Irving Vedova per un anno. Insomma, la storia che il film ospita per tutta la durata delle sue due ore è in realtà solo la prima sezione di un più grande romanzo che di sezioni ne ha tre e ha per centro Ruth Cole, qui relegata a un ruolo importante ma sostanzialmente marginale. Non che ci sia però, per questo, bisogno alcuno di sentire, sopra questo film, un qualche odore di adultero e falsificato perché il trascolorare delle vicende del libro in quelle del film, il loro trasmutarsi e cambiar forma e immagine migliora, per così dire, il tessuto originale del testo, facendolo più umano e colorando di un salutare colorito i pallidi incarnati dei machiavellici intrighi che Ted Cole allestiva in Vedova per un anno. Il dramma della famiglia Cole, dunque, ci è presentato in tutta la sua umanità, in tutta la sua fragilità più densa e dolorosa: c’è la stolida alienazione di Ted, bercione e femminaro che cerca il proprio posto nel mondo recitando all’infinito se stesso, in fuga da chissà quale colpa; c’è il pietrificato orrore di Marion (inaspettatamente, il vero motore tragico della storia); c’è la monomania memoriale della piccola Ruth,  ossessionata dal ricordo prenatale dei fratelli che non ha mai conosciuto e di cui, forse, sa di essere la poco apprezzata sostituta.


Esiste, all’interno del film, tutto un sotteso fatto di oscure rispondenze fra natura e cultura, mascherati simbolismi (cosa sta a significare la porta nel pavimento da cui, alla fine, esce anche Ted?) e una appassionata, per quanto poco affannosa, carnalità che coinvolge tutti i protagonisti, dallo scrittore Ted che gira sempre nudo o mezzo nudo a sua moglie Marion che seduce – per pietà o per contorta brama incestuosa? – il giovane e tormentato Eddie, anche lui perseguitato da uno strano rapporto con il suo corpo, al pari della folle modella di Ted, la signorina Vaughn. Oltre a tutte le possibili chiavi di lettura (che richiederebbero un’analisi più lunga della mia voglia di scrivere e della vostra tolleranza al leggere) una marca sicura è che The Door in The Floor è un film malinconico, triste in maniera quasi sublime, eroica. Ogni personaggio è pungolato dallo spettro di un qualche passato, visibile o invisibile che sia, e gli incubi della notte si risolvono nell’uggia mortale del giorno, catturata alla perfezione da una fotografia dolce, tiepida e tutta odorosa di morte e disfacimento e gli spettri del passato riverberano all’infinito nei mille ritratti dei gemelli appesi in ogni stanza di casa Cole, ripercorse ogni notte, a mo’ di scongiuro, tributo e via crucis, dalla piccola Ruth che ne rinarra ogni volta storie e aneddoti annessi, finendo per impararli a memoria.


Sorvolando sull’interpretazione magistrale di Jeff Bridges, che non andrebbe neppure commentata e che forse avrebbe meritato qualche premio in più (m’arrischio: un Oscar, forse?), andiamo alla vera stella della pellicola, ovvero a Kim Basinger che anche a cinquant’anni suonati (ma era il duemilaquattro, cioè otto, augusti anni fa) non solo fa la sua porca, porchissima figura ma domina lo schermo con quella sua radianza offuscata da polvere e lacrime, con quel suo gelido tormento interiore e la sua catatonia dell’anima. Altra bella interpretazione è quella di Jon Foster, incredibilmente potente nel ritrarre le insicurezze e le tribolazioni di un ragazzo alla scoperta di sé stesso, della vita e del mondo, a cui s’accoppia quella, pure straordinaria, della piccola Elle Fanning (certo più dolce e talentuosa della sorella maggiore, prestatasi, in un attimo di sconforto e disperazione, a quella ignominiosa prostituzione attoriale chiamata Twilight). Insomma The Door in the Floor è un film che va visto per forza di cose, per la sua capacità di spiegare l’amore, la letteratura e la vita in maniera così essenziale e penetrante, per la sua bella (ma incompleta) cinematografia e per tutti quei suoi difetti che, in fin dei conti, ci si sente costretti a perdonare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per il genere “donna anziana/uomo giovine” c’è il supercult assoluto da Olimpo Harold e Maude (1971) di Hal Ashby, lo stupefacente The Reader (2008) di Stephen Daldry e il morbosissimo Womb (2010) di Benedek Fliegauf, che tra l’altro divide con The Door in The Floor l’ambientazione marittima e malinconica e il tema del lutto. Per la bizzarria del rapporto padre/figlia c’è La storia di Jack e Rose (2005) di Rebecca Miller. Quanto agli amanti della divina Basinger non possiamo che proporre l’immortale L.A. Confidential (1997) di Curtis Hanson e il leggendario, quantunque un po’ mediocre, 9 settimane e 1/2 (1986) di Adrian Lyne.


Scena cult – Marion, Eddie e Ruth in spiaggia. E, sul mare, la nebbia.

Canzone cult – Le canzoni sono tante e si va dal rap a Mozart. Quella che m’ha colpito di più è la volgarissima, sperticata My Neck,My Back della rapper Khia, protagonista di una scena che non so se definire più divertente o drammatica.

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