mercoledì 27 marzo 2013

HITCHCOCK (2012), Sacha Gervasi


USA, 2012
Regia: Sacha Gervasi
Cast: Anthony Hopkins, Helen Mirren, Toni Collette, Scarlett Johansson, Jessica Biel, Danny Houston, Michael Wincott, James D’Arcy
Sceneggiatura: John J. McLaughlin


Trama (im)modesta – 1960. Alfred Hitchcock, reduce del grandissimo successo di Intrigo Internazionale, desidera girare un nuovo film ma si sente mancare l’ispirazione, intrappolato com’è fra le grette aspettative dei produttori della Paramount e le cataratte della censura. Come se non bastasse, proprio in questo periodo è in crisi il rapporto con la amatissima moglie, Alma, che, stanca di vivere nell’ombra dell’imponente marito (in tutti i sensi), ha deciso di dedicarsi alla stesura di uno script tutto suo insieme a uno sceneggiatore marpione amico di famiglia. Il grande Hitchcock decide di trasformare in un film lo Psycho di Robert Bloch, ispirato ai foschi e sanguinari casi di Ed Gein, il macellaio di Plainfield. Osteggiato dai produttori e dai critici, il maestro del brivido decide di autoprodurre il film e girarlo a suo modo ma, per farlo, dovrà ipotecare la sua ciclopica magione hollywoodiana e rischiare matrimonio, carriera e reputazione.


La mia (im)modesta opinione – Ci sono dei film che fanno la storia della propria arte, che la esaltano in tutti i modi possibili, spingendone i limiti fino a estremi impensabili; ci sono poi film che alla propria arte alzano un canto d’amore – un amore che può essere disperato, malinconico, appassionato. L’Hitchcock di Sacha Gervasi rappresenta questo secondo caso: Alfred Hitchcock è stato  uno dei grandissimi del cinema internazionale, ha rivoluzionato con la sua inventiva generi interi, ha portato la sperimentazione cinematografica a livelli che ancora oggi sbalordiscono (la carrellata de La donna che visse due volte è una lezione di cinema mozzafiato che dura appena pochi secondi) ma soprattutto ha inciso nel nostro immaginario come pochi sono riusciti a fare. E se è vero che ora la lezione del grande Hitchcock giace in parte dimenticata da un pubblico tragicamente ingrato, va sempre detto che quello che lui ha dato al cinema è valido ancora oggi.


Il film della Gervasi è una delle commedie più geniali dell’anno passato (sebbene in Italia uscirà solo all’inizio di Aprile) e si dimostra capace di mescolare alla perfezione il character drama, la lezione di storia del cinema, il biopic e tutta l’ironia che contraddistingueva il regista londinese – ironia che appare fin dai titoli di testa con un Hitchcock che apre la pellicola a lui dedicata con un acidissimo apologo della morte “che vende”. La pellicola cambia poi registro e si preoccupa contemporaneamente di rappresentare il making of della pellicola che terrorizzò l’America e di definire il complesso personaggio di Hitchcock, evitando (grazie a Dio!) inutili drammatizzazioni e attenendosi al realismo più autentico. Dunque niente melodramma, ma solo assoluta eleganza, specialmente da parte di tutti gli interpreti. Unico difetto: sono pochissimo approfonditi i personaggi della Johansson e di D’Arcy.


Sir Anthony Hopkins fornisce la sua miglior performance dai tempi di Titus (ossia la migliore interpretazione di questo decennio della sua carriera), gigionissimo e beffardo, rinuncia al suo sguardo di ghiaccio in favore di più realistiche lenti a contatto marroni, e si fa ingrassare di chili e chili. Il suo Alfred Hitchcock è un uomo dall’impeccabile aplomb inglese ma incredibilmente fragile e nevrotico. Le sue manie e i suoi vizietti (il voyeurismo, l’ossessione sue attrici-feticcio, il bere, i cibi costosi) lo fanno sentire in parte colpevole ed è interessante l’idea, suggerita dal film, che il cinema di Hitchcock fosse in parte la sublimazione di questi difetti. Umanissimo è in questo senso il film che ha la geniale idea di raffigurare in sogno il regista che parla con il serial killer Ed Gein, rappresentazione ideale del suo lato più oscuro e nascosto.


In conclusione, Gervasi firma una pellicola di valore altissimo, dichiarazione d’amore all’arte del cinema, e la ambienta in atmosfere irresistibilmente sixties con una fotografia sgargiante e luminosa e un’ironia sottilissima, indispensabile strumento del cinema che parla di cinema. E fa piacere vedere come Hollywood, in questo periodo, stia guardando con serena nostalgia al passato, omaggiandolo, ma anche riflettendo sui suoi problemi e sulle sue mancanze. Altro film che ripercorre le stesse tracce di Hitchcock è quell’Argo di Ben Affleck che ha trionfato agli Oscar di quest’anno con le sue riflessioni larvate sul rapporto realtà/finzione e le sue atmosfere piacevolmente retrò. Hitchcock è dunque un film assolutamente imperdibile, un gemello quasi di Argo, declinato però alla commedia, laddove il film di Affleck eccedeva in dramma e tensione. Assolutamente imperdibile.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i film hitchcockiani citati nella pellicola: prima di tutto Psycho (1960) e poi Nodo alla gola (1948), Intrigo internazionale (1959) e Gli uccelli (1963). Per film che invece dichiarano amore al cinema abbiamo il già citato Argo (2012) di Ben Affleck, il capolavoro Effetto notte (1973) di François Truffaut, il divertente Tropic Thunder (2008) di Ben Stiller, Gli abbracci spezzati (2009) di Pedro Almòdovar, il grande Stardust memories (1980) di Woody Allen e il tragicamente sottovalutato L’ombra del vampiro (2000) di E. Elias Merhige. Rincariamo la dose con Bowfinger (1999) di Frank Oz, il Demoni e dei (1998) di Bill Condon e il grandissimo Ed Wood (1994) di Tim Burton.


Scena cult – Oltre ai folgoranti incipit ed explicit (non so quale sia il più geniale), Hitchcock che ascolta le urla degli spettatori durante la famosissima scena della doccia di Psycho.

Canzone cult – Un cult non può che essere la sigla di Alfred Hitchcock presenta che apre e chiude la pellicola con sapiente ironia.

martedì 26 marzo 2013

CUORI IN ATLANTIDE (2001), Scott Hicks


USA, 2001
Regia: Scott Hicks
Cast: Anton Yelchin, Anthony Hopkins, Mika Boorem, Hope Davis, David Morse
Sceneggiatura: William Goldman


Trama (im)modesta – Un vecchio guantone da baseball, consegnatogli a casa, porta il famoso fotografo di mezz’età Bobby Garfield al funerale di un suo antico amico d’infanzia. Tornato nella città natale, Bobby rievoca l’ultima estate della propria infanzia: i primi amori, la madre vedova e leggera che lo trascurava di continuo e il signor Brautigan, un misterioso vicino, che gli aveva insegnato a essere uomo. E proprio la figura di Ted Brautigan è avvolta di mistero: un attempato e mite vicino di casa, a prima vista, con qualche scheletro nell’armadio, che cade di tanto in tanto in misteriosi stati di trance e che scappa da un gruppo di “uomini bassi”, che lo stanano dovunque egli vada, alla ricerca di non si sa cosa.


La mia (im)modesta opinione – Scott Hicks è il classico regista totalmente discontinuo, assolutamente legato alla qualità degli script sui quali lavora e che determinano in massima parte la riuscita dei suoi film. Divenne giustamente famoso per lo stupendo film Shine e questo Cuori in Atlantide, basato su una novella di Stephen King, è un film di assoluta qualità. Putroppo il nostro Hicks non si è ripetuto nel futuro e ha prodotto filmetti di scarsissimo spessore quali Sapori e dissapori e Ho cercato il tuo nome. Ma ogni tanto fa bene tornare a visitare le vecchie glorie del passato e per questo consideriamo Cuori in Atlantide, piccola gemma nascosta nella filmografia di un altrimenti mediocre autore che, grazie al testo di partenza di uno dei massimi autori americani viventi (ammettiamolo, King può perdere colpi qua e là ma va annoverato fra i grandi scrittori americani del suo secolo) riesce a emozionare e appassionare con la sua grazia delicata e la sua eleganza.


Più che in altri film, qui la presenza dell’opera di King è fortissima. Intendiamoci bene, la novella Uomini bassi in soprabito giallo (infatti Cuori in Atlantide era il titolo della raccolta) era proprio diversa dato che finiva in un altro modo e conteneva riferimenti alle altre grandi opere del Re del Brivido. Lo sceneggiatore Goldman fa una scelta elegantissima: eliminare i vari riferimenti alla saga de La torre nera e ricostruire un finale plausibilissimo che lo stesso King potrebbe aver scritto. La fine del film ricorderà a molti le atmosfere de L’incendiaria ma soprattutto nella pellicola abbondano i luoghi comuni dello scrivere kinghiano: il passaggio dall’infanzia all’età adulta, il genitore incompetente, il bullismo subito, il gruppo di amici per sempre diviso. In tutto ciò, proprio come in un romanzo di King, il fattore soprannaturale si inserisce con assoluta discrezione, lasciando molto più spazio (e per fortuna!) all’elemento drammatico.


E oltre alla ben fatta sceneggiatura di Goldman (adattatore fra l’altro di Misery non deve morire, Il maratoneta e Potere assoluto) il film si fa memorabile con le interpretazioni di un mostro sacro del cinema internazionale, Anthony Hopkins, e di una giovanissima promessa, Anton Yelchin, che fra un film d’autore e l’altro si sta guadagnando un posto al sole che speriamo diventi sempre più grande. Entrambi i protagonisti sono ottimi nella loro parte, ma Yelchin supera Hopkins in intensità di recitazione e versatilità dato che il nostro povero Hopkins si ritrova ormai affidati pochi ruoli veramente all’altezza della sua bravura e troppi, invece, che sfruttano le sue possibilità attoriali solo in esigua parte. Hopkins è comunque meraviglioso nel tratteggiare la figura del misterioso vicino coi suoi sguardi malinconici, il suo stile d’altri tempi e quel tocco di eleganza british che contraddistingue sempre il grande attore inglese.


La regia di Hicks è precisa e calorosa, ma abbastanza disimpegnata. Questo fa di Cuori in Atlantide un film non eccessivamente impegnativo e, per contrappasso, nemmeno eccessivamente memorabile. Eppure la pellicola riesce a emozionare nei suoi punti salienti, a costruire scene davvero coinvolgenti e, alla fine, a colpire molto positivamente senza rivelare alcun punto debole: nessuna ruffianeria, nessuna incongruenza, nessuna esagerazione. E allora potremmo pure dire che Cuori in Atlantide dimostra come, anche in fatto di cinema, lo script regni sovrano e che sobrietà ed eleganza, senza arroganze o desiderio di strafare, garantiscano sempre risultati positivi. Da ricordare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Film tratti da King che parlino di infanzia perduta? Troppi per ricordarsene: il più straziante è certo Stand By Me (1986) di Rob Reiner, accanto ai certamente mediocri Firestarter (1984) di Mark L. Lester e L’acchiappasogni (2003) di Lawrence Kasdan fino ai più epocali It (1990) di Tommy Lee Wallace e il grande classico Carrie (1976) di Brian DePalma e il suo prossimo remake Carrie (2013) di Kimberly Peirce. Altri importanti coming-of-age sono poi Il calamaro e la balena (2005) di Noah Baumbach, il sommo capolavoro Tout est parfait (2008) di  Yves Christian Fournier, il nostalgico Quasi famosi (2000) di Cameron Crowe, Un’estate da giganti (2011) di Bouli Lanners e Guida per riconoscere i tuoi santi (2006) di Dito Montiel.


Scena cult – Le scene gemelle del pestaggio di Carol e dello stupro della madre di Bobby.

Canzone cult – L’alquanto abusata ma sempre stilosissima Only You dei The Platters, Carol del grande Chuck Berry e la Come fly with medi James Darren.

sabato 23 marzo 2013

MOONRISE KINGDOM (2012), Wes Anderson


USA, 2012
Regia: Wes Anderson
Cast: Jared Gilman, Kara Hayward, Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton, Harvey Keitel
Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola


Trama (im)modesta – L’anno è il 1965. Il luogo è la verde isola di New Penzance, a largo delle coste del New England. Il dodicenne Sam Shakusky, orfano, scappa dal campo scout in cui si trova per unirsi alla problematica coetanea Suzy Collins, di cui è innamorato. I due iniziano un viaggio attraverso l’isola che li porterà in una spiaggia nascosta che da loro verrà chiamata appunto Moonrise Kingdom. La fortuna non gioca dalla loro: sono scoperti, separati. I genitori adottivi di Sam non sono più disposti a prendersi cura di lui e lo spediranno in un orfanotrofio; a Suzy è proibito vedere Sam per il resto dei suoi giorni. Ma l’amore fra i due è più grande e sarà proprio questo a farceli rivedere riuniti alla fine.


La mia (im)modesta opinione – L’infanzia, l’estate, l’amore. Le premesse non potevano sembrare più ambigue per il nuovo film del grandissimo Wes Anderson: da un lato i temi da sempre carissimi al (relativamente) giovane maestro, dall’altro una combinazione di circostanze che nelle mani d’un altro regista potevano portarci a un pastrocchio kitsch in stile Laguna Blu. Ma in Anderson avevamo motivo certo di confidare e le nostre aspettative non sono state disattese: Moonrise Kingdom è un film delicatissimo e profondo, patinato da uno stile insieme ironico e prezioso con quel piglio totalmente sopra le righe a cui il nostro regista texano ci ha da tempo abituato. Ed è stupefacente rivedere come un regista del calibro di Anderson riesca ancora una volta a rivisitare i temi che lo ossessionano e attraverso le consuete immagini (la bambina-lolita, l’alienazione di una famiglia popolosa, la solitudine, l’amore al di là di ogni ragione, il padre-dandy) senza però cadere né nel banale né nel trito, ma anzi arricchendo sempre più il proprio linguaggio artistico.


Ciò che colpisce di più in Moonrise Kingdom è la capacità di Anderson di superare se stesso, di alzare di una tacca ulteriore il già altissimo livello di stilizzazione e straniamento pur tenendo fissi gli stilemi che gli sono propri: consistente uso di corposi impasti di colori sgargianti (sebbene in questo caso la stupenda fotografia dia a ogni singola inquadratura la morbidezza burrosa delle tonalità pastello), campi fissi, rigide prospettive e studiate asimmetrie. Musichette vintage che sono la gioia del pubblico indie/hipster, dialoghi brillanti e stralunati e una certa concettosità che non manca mai di far sorridere unita però a un nucleo d’inaspettato e viscerale pathos che ci affonda a tradimento direttamente nello stomaco. Succedeva così ne I Tenenbaum, succedeva così in Steve Zissou, succedeva così ancora nel sulfureo Il treno per il Darjeeling e succede così in questo ultimo, stupendo affresco.


Come al solito, il cast corale è superlativo: innanzi tutto fantastici sono i protagonisti ossia gli esordienti Jared Gilman e Kara Hayward, due che hanno già una carriera scritta nelle stelle. Lui diventerà il messia dei nerd sullo schermo, un po’ come Joseph Gordon-Levitt, insomma, di cui Gilman pare il fratellino minore; lei ha già quattordici anni e il suo sguardo perfora lo schermo, una lolita insolitamente conturbante che farà impazzire frotte e frotte di registi nel futuro. E già vedo la bella Kara Hayward e il suo fascino fatale davanti alla telecamera di un David Lynch o di un Quentin Tarantino. Il resto dei protagonisti ricalca sempre le solite scelte di Anderson con delle presenze familiari (Bill Murray, ad esempio, o Frances McDormand che ormai pare inseguita da tutti gli autori di cinema indipendente del mondo) fino alle sorprese e alle new entries come la mia somma adorata Tilda Swinton e le stelle tarantiniane Bruce Willis e Harvey Keitel, accompagnate da un Edward Norton alquanto sbiadito ma comunque sempre in formissima.


L’apparato tecnico, l’ho già detto, è eccellente: spettacolare fotografia, superbo montaggio, musiche e costumi da primo premio. È già chiaro che, con Moonrise Kingdom, Wes Anderson si riconferma come uno dei migliori autori cinematografici sulla piazza, uno il cui talento è più duraturo senza momenti di particolare declino o stanchezza. Anzi, la sua carriera pare un continuo crescendo con colpi sempre più alti in eleganza e clamore. E quest’ ultima conquista di Moonrise Kingdom è senza dubbio il suo miglior lavoro dopo I Tenenbaum. Il miglior lavoro ma non il mio preferito: il Wes Anderson che mi muove il cuore è quello dello stupendo, coloratissimo Il treno per il Darjeeling


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovvi sono i precedenti film di Wes Anderson: dagli esordi di Un colpo da dilettanti (1996) e Rushmore (1998) alla piena maturità de I Tenenbaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e la gemma Il treno per il Darjeeling (2007) fino al film d’animazione Fantastic Mr.Fox (2009). Per le storie d’amore in tenera età c’è poi il toccante A Swedish Love Story (1970) di Roy Andersson e il baracconesco Laguna Blu (1980) di Randal Kleiser, ci sono poi i più spintamente erotici Bilitis (1977) e Premiers désirs (1984) del fotografo David Hamilton.


Scena cult – L’incipit della pellicola, con la girandola di punti di vista; ma soprattutto la danza sulla spiaggia, il momento più toccante dell’intera pellicola.

Canzone cult – Due su tutte: la francesissima Le temps de l’amour di Francoise Hardy e la The Young Person's Guide To The Orchestra di Benjamin Britten

mercoledì 13 marzo 2013

SKYFALL (2012), Sam Mendes


Regno Unito, 2012
Regia: Sam Mendes
Cast: Daniel Craig, Javier Bardem, Judi Dench, Ralph Fiennes, Naomie Harris, Albert Finney, Ben Wishaw, Bérénice Marlohe
Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade, John Logan


Trama (im)modesta – Mentre si trova a Istanbul, cercando di proteggere un prezioso disco rigido contenente le identità di tutti gli agenti NATO sotto copertura, James Bond viene ferito per sbaglio e dato per morto. Dopo essersi goduto una vacanza dalla vita di agente segreto, Bond viene a sapere che l’MI6 è accusata di negligenza e inefficienza a causa della perdita del disco. L’agente segreto decide di tornare così in Inghilterra e riprendere il servizio ma, per farlo, dovrà dimostrare di essersi completamente ristabilito. Difficile dato che il nostro Bond è ormai avanti con gli anni e non ha né il fisico né lo spirito di una volta; come se non bastasse Raoul Silva, un ex-agente dell’MI6, geniale hacker, decide di vendicarsi di M, capo dei servizi segreti, colpevole di averlo “venduto” ai colleghi cinesi che l’hanno torturato quasi fino alla morte. E così, fra una Londra messa a ferro e fuoco da attentati terroristici e oscuri destini che tornano a bussare alla porta, l’agente Bond dovrà affrontare la più importante resa dei conti della sua vita.


La mia (im)modesta opinioneSkyfall, lo dico subito, è il miglior Bond mai girato. Una assoluta pietra miliare della longevissima serie: se prima del salvifico Casino Royale, le storie del tostissimo agente segreto inventato da Ian Fleming s’erano cristallizzate sempre di più in trame stanche e ripetitive, l’avvento congiunto di Daniel Craig e Martin Campbell, rispettivamente davanti e dietro la cinepresa, e del nuovo team di autori aveva resuscitato l’agente 007 dal baratro in cui pareva definitivamente intrappolato. Aboliti definitivamente i clichés della serie, aboliti i gadget fantascientifici che ai tempi del barocco bondiano di Roger Moore avevano visto il loro massimo splendore, abolite le figure fisse del cattivo accompagnato dall’immancabile aiutante malvagio, aboliti i piani malefici stessi. Sobrietà e forza, innanzi tutto. La formula aveva funzionato alla grandissima per lo spettacolare Casino Royale, un po’ meno per Quantum of Solace che, persa la spinta dell’innovazione iniziale, risultava alquanto noiosetto, tanto noiosetto da far sospettare la definitiva dipartita della serie. Ma Skyfall ha dimostrato come, per la serie dell’agente segreto più famoso del mondo, la morte possa benissimo attendere.


Un riciclo e un ritorno, ecco cosa vedo in questo Bond firmato Sam Mendes: due spinte convettive e opposte. Una fa tornare indietro il passato glorioso, l’altra mette al bando il vecchio. Il film è, a una primissima visione, costellato di riferimenti più o meno espliciti agli storici film di Bond: la Aston Martin e gli scenari montani ricordano il mitico Goldfinger, la fossa dei draghi di Komodo con tanto di balzo finale è un rimando a Vivi e lascia morire, il dipinto arpionato da Bond in Moonraker appare nell’ufficio di M, il cervo che svetta sui cancelli della antica casa di 007 lo si vede in Thunderball e via dicendo. Il film fa di più: riporta sullo schermo le versioni ringiovanite e rinnovate delle due storiche spalle di Bond, ovvero la segretaria Moneypenny e il quartermaster Q. Una cornice di splendido anticato per racchiudere un quadro moderno che ci parla di temi dolorosi: l’inevitabilità del tempo e della morte, l’inesorabile caduta di ogni certezza, la fragilità e la debolezza cui tutti siamo soggetti. Ne risulta un Bond singolare, fastoso e decadente, stranamente intimistico, incantato da una specie di sublime melanconia; un Bond crepuscolare e cupo, un film di fosca potenza cui la sempre umanissima regia di Sam Mendes regala un tono in più di lirismo senza togliere nemmeno un briciolo di ironia, azione e brillantezza.


Il merito va, in grandissima parte, agli autori, capaci di aver creato un Bond veramente atipico, tematicamente densissimo, compiaciuto e nostalgico del crepuscolo a venire. Basti pensare che la convenzionale figura della Bond Girl, ormai ridotta a inutile appendice, ha un’importanza più che marginale. Interpretata dalla mozzafiato Bérénice Marlohe, con quell’aria indecisa fra la gorgone e la sirena, la bella Sévérine che viene tolta dal mezzo nel giro di tre scene scarse. Altra innovazione per il villain della serie: Raoul Silva non vuole né fare esplodere una bomba atomica a Fort Knox, né sabotare le missioni aereospaziali USA, né minacciare il pianeta con satelliti e cannoni esplosivi. Raoul Silva cerca, anzi, la morte, ma non vuole andarsene prima che se ne sia andata pure M, colpevole di averlo abbandonato a cinque mesi di indicibili torture per mani di agenti segreti rivali e averlo lasciato sfigurato dopo un tentativo di suicidio tragicamente fallito. Nel creare il suo Silva, Javier Bardem offre, come al solito, un’interpretazione semplicemente meravigliosa riuscendo a mescolare plausibilmente genio criminale, omosessualità (Raoul Silva, primo cattivo gay in un film bondiano, è un ibrido ossigenato e struccato fra il Joker di Heath Ledger e Frank-N-Furter del mitico Rocky Horror Picture Show) e inveterato rancore.


Anche Daniel Craig, solitamente inespressivo, riesce a darci il suo miglior Bond, ma vero plauso va alla regina assoluta del cinema inglese, mi riferisco ovviamente alla sublime Judi Dench, che vede finalmente approfondito il personaggio di M e a cui vengono regalate un paio di scene e battute realmente memorabili. Da un punto di vista visivo, poi, Skyfall si conferma ancora una volta come il miglior Bond di sempre: dalle fredde luci blu dei grattacieli di Shangai agli ori sfolgoranti di Macao, dalle grigie guglie londinesi ai ventosi e desolati altipiani della Scozia, il lavoro di fotografia e effettistica è impagabile. Di pauroso impatto è l’epica esplosione dell’antica casa di Bond e sempre al registro del sublime tendono le immagini della nebbiosa highland illuminata dal rogo del palazzo sventrato dal fuoco. Il capolavoro assoluto della saga bondiana? Sì, ma non scordiamoci che senza i ventidue film che aveva alle spalle, questo ultimo non sarebbe stato possibile. E qui sta la vera grandezza di Skyfall: riscattare tutti i suoi predecessori e insieme superali con un balzo, essere il necessario prodotto di cinquant’anni di film dall’alterna fortuna e insieme esserne il distillato migliore. Impossibile uno Skyfall senza i precedenti film di Bond (quelli brutti inclusi) e insensati i precedenti film di Bond senza uno Skyfall davanti a sé. Umilmente m’inchino.


Se ti è piaciuto guarda anche... – James Bond è uno dei principali responsabili del mio amore per il cinema, noterò di seguito tutti i film che costituiscono le pietre miliari della semisecolare serie: il primo, immenso è Licenza di Uccidere (1962) di Terence Young, lo segue a ruota il mitico Missione Goldfinger (1964) di Guy Hamilton, stendendo un pietoso velo sulla dolorosa parentesi di George Lazenby, ci troviamo di fronte al titano La spia che mi amava (1977) di Lewis Gilbert accompagnato dall’illustre fratello minore Solo per i tuoi occhi (1981) di John Glen e dal piccolo fratellino ritardato Octopussy (1983) sempre di John Glen. Abbiamo poi il debutto di Martin Campbell alla regia del suo primo Bond, ossia GoldenEye (1995) che segna anche l’esordio di Pierce Brosnan nel ruolo di 007, bolsissimi tutti gli altri e degno di nota è il La morte può attendere (2002) di Lee Tamahori che segna il punto di congelamento più grave per l’agente segreto più famoso del mondo. E consigliamo infine la meravigliosa resurrezione di Casino Royale (2006) ancora una volta di Martin Campbell.


Scena cult – L’intera mezz’ora finale. Uno spettacolo per gli occhi. E ovviamente il fascinoso casinò di Macao.

Canzone cult – Nemmeno a dirlo, l’immensa Skyfall di Adele, canzone più intima e lirica che non inneggia né alla sopravvivenza di Bond né a ormai esausti motivi di vendetta o rivalsa personale.

lunedì 11 marzo 2013

HOWL (2010), Rob Epstein, Jeffrey Friedman


USA, 2010
Regia: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Cast: James Franco, David Strathairn, Joe Hamm, Aaron Tveit, Mary-Louise Parker, Jon Prescott, Jeff Daniels
Sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman


Trama (im)modesta – 1955. San Francisco, California. Allen Ginsberg non ha nemmeno trent’anni quando legge per la prima volta al pubblico il suo poemetto Howl, manifesto della beat generation, eppure la sua poesia ha straordinario successo e conquista un numero sempre maggiore di lettori. 1957. L’editore di Ginsberg affronta un processo per oscenità in cui si mettono in discussione i concetti di poesia, letteratura e oscenità. L’accusa d’oscenità finirà per cadere. Su tutti questi eventi, la voce di Allen Ginsberg parla e commenta se stesso, la sua poesia, la sua vita: i vagabondaggi, le storie d’amore, le illuminazioni d’arte, le vittorie letterarie.


La mia (im)modesta opinione Howl non è un film vero e proprio. Lo si etichetta col nome di “film sperimentale” e, a rigor di logica, la pellicola di Epstein-Friedman è un film sperimentale ma Howl è qualcosa di più. Piuttosto che parlare di un poeta (e così evitando la trappola del biopic), il film dei due registi preferisce concentrarsi sulla poesia vera e propria. Una poesia che viene commentata letterariamente, viene spiegata e resa manifesta dalla voce del poeta stesso che narra e si narra, viene resa sensorialmente visibile tramite lisergiche sequenze animate. Il tutto per formare una delle visioni più profonde, originali e stranamente sconcertanti sul mondo dell’arte prodotte in questi ultimi anni. Howl non è un film, dunque, ma una lezione di letteratura, una lezione di letteratura come non ne vedevo da anni.


È pauroso come, chissà per quale paradosso, per capire la beat generation (e forse ogni altro fenomeno culturale) risulti più efficace la giustapposizione di frammenti di cui l’opera stessa è costituita: il lato “storico” (ossia la lettura originale del poema e, in sostanza, il processo), il lato umano (la vita e le esperienze di Ginsberg) e quello più incomprensibilmente artistico (i versi poetici accompagnati dalle allucinose animazioni). Lo ripeto: Howl non è un film. Non ha una trama, quelle degli attori non sono interpretazioni propriamente dette ma piuttosto un prestare la faccia, come anche il piglio della pellicola è più documentaristico che filmico (fa moltissimo pensare che Howl sia il primo film vero e proprio di due registi che, prima, si sono occupati solo di documentari), nel suo senso più stretto.


Va detto comunque che la pellicola è stilosa assai: domina su tutti James Franco, grandioso Ginsberg, sebbene le scelte di casting siano assai generose nei confronti della attuale realtà dei fatti. Per quanto importante come poeta, Ginsberg non era certo un adone, come nemmeno lo era il suo compagno di vita, Peter Orlovsky, interpretato sullo schermo da un delicatissimo Aaron Tveit, che però praticamente non spiccica nemmeno una parola, senza per questo perdere di credibilità. Quanto a Joe Hamm e David Strathairn, nulla da dire: patinatissimo uno, di infinita classe l’altro, vederli recitare è come vederli vivere. E l’unica pecca di questo film è quella allora della mancanza di pathos poetico: non una storia fredda, ma freddolosa.


Il lato visivo è qualcosa di ineccepibile: perfetta fusione di trip misticheggianti, finissimo B/W e vivida fotografia. Lo stesso può dirsi per quello musicale, con inafferrabili motivi jazz che schizzano via per ogni scena. Una simile e così riuscita sperimentazione l’avevo trovata solo in quel turbinio d’immagini e impressioni che era Io non sono qui, film sulle molte vite e cimenti del grande Bob Dylan, e di questo film Howl presenta anche gli stessi difetti: il vago, vaghissimo senso d’inconcludenza, la forse eccessiva frammentazione e la sempre forse eccessiva complicazione concettuale. Ma a volte non tutti i film devono essere semplici, a volte è un bene che sacrifichino l’intrattenimento alla profondità d’indagine e temi e Howl è un film così.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Dunque, abbiamo per cominciare l’Io non sono qui (2007) di Todd Haynes. Prodotti della beat generation sono poi Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg, Drug Store Cowboy (1989) di Gus Van Sant, Beat (2000) di Gary Walkow e il documentario Love always, Carolyn (2011) di Malin Korkeasalo e Maria Ramström. Per film che trattano del valore della poesia e delle vicende dei poeti e scrittori, consigliamo Poetry (2010) di Chang-dong Lee, l’incendiaro Quills (2000) di Philip Kaufman e Paura e delirio a Las Vegas (1998) di Terry Gilliam.


Scena cult – Le disquisizioni letterarie in aula di tribunale. Illuminanti.

Canzone cult – Non pervenuta.

sabato 9 marzo 2013

7 PSICOPATICI (2012), Martin McDonagh


Regno Unito, USA, 2012
Regia: Martin McDonagh
Cast: Colin Farrell, Sam Rockwell, Christopher Walken, Woody Harrelson, Tom Waits
Sceneggiatura: Martin McDonagh


Trama (im)modesta – Marty è uno sceneggiatore alcolizzato che vive a Los Angeles in piena crisi creative. Il suo amico Billy, che rapisce cani per professione insieme al suo socio Hans, decide di aiutarlo e gli propone di utilizzare la storia di cronaca di un assassino mascherato che uccide affiliati della mafia come base per il suo nuovo film: 7 Psicopatici, appunto. Mentre però Marty comincia a elaborare la sceneggiatura del suo nuovo film, Billy ha la bella idea di rapire uno shih tzu di nome Bonny, che appartiene a uno schizzatissimo boss mafioso che farà di tutto per riprenderselo. La storia procede così, fra coppie di vigilanti che vagano per l’America, inquietanti quaccheri vendicativi e preti vietnamiti in cerca di vendetta.


La mia (im)modesta opinione7 Psicopatici è un film che ha commesso un errore: si è fermato solo pochi passi prima davanti alla soglia della genialità. Una sola esagerazione in più, una storia forse ancora più grande e folle, e sarebbe diventato il principe dei cult underground. Intendiamoci, nella pellicola di McDonagh abbiamo un triplo scontro formale fra Tarantino, Guy Ritchie e il primo Terrence Malick (i personaggi che vagano per il deserto con la luna nascente alle spalle, dopotutto, non possono che essere una citazione al supercult La Rabbia Giovane). Ciò che rende il film autenticamente geniale, oltre allo stile di regia di cui più sotto parleremo, è la perfettamente dosata metanarratività: proprio come nell’ di Felliniana memoria, un creativo in crisi affronta un’avventura che sarà proprio il soggetto della sua opera.


Geniali sono i dialoghi dei personaggi che commentano i difetti principali del film e della sceneggiatura (l’assoluta inconsistenza dei personaggi femminili, ad esempio; oppure la mancanza d’azione in un film di gangster), geniali sono pure gli accorgimenti dello script che mescola in maniera potentissima la finzione dell’aneddoto e la realtà della vita. Spettacolari sono poi i mille camei che costellano il film coi volti di Michael Pitt, Harry Dean Stanton, Tom Waits, Crispin Glover, Gabourey Sidibe e Olga Kurylenko. E la maggiore bellezza di tutto ciò, è che i vari frammenti in cui vediamo alcuni di questi volti, ossia gli aneddoti del prete, del quacchero e di Zachariah, sono film spettacolari dentro un altro film: inquieta come il miglior thriller la storia del quacchero e della sua folle vendetta (pare un racconto di Poe, a dirla tutta); la storia di Zachariah è una stupenda girandola di lisergica violenza e ironia sagace che culmina in una scena onirica singolarmente toccante; pure toccante è la storia del prete vietnamita che si risolve, nel finale, in complessa novella morale.


La regia, poi, è di incredibile bravura nella capacità di saltare di genere in genere con disinvoltura e di culminare in momenti di visionarietà così perfetta e tragicomica che tradiscono un talento di certo sopra la media. Ma il nostro McDonagh ci aveva abituato proprio bene sia col suo corto (premiato con un Oscar) Six Shooter, sia col suo brillante In Bruges, che aveva ricevuto una nomination presso l’Academy come migliore sceneggiatura originale. Passando dalla regia al cast, anche qui gli applausi trionfano, ma non del tutto: se infatti Christopher Walken regala un personaggio indimenticabile, insieme al sempre stupendo Woody Harrelson, Sam Rockwell e Colin Farrell paiono vagamente sottotono. Il primo, tanto abituato a fare la parte dello schizzato, si contiene un po’ troppo, il secondo non è mai stato un gran che e dunque passa quasi inosservato.


Ovviamente alla pellicola non mancano difetti: su tutti, la dichiaratissima mancanza di omogeneità e robustezza, il suo ostinato spezzarsi e dividersi in storie parallele, sottostorie, retrostorie lo condanna a una volatilità pericolosa perché si smette di focalizzarsi sul nucleo principale che, come già detto, avrebbe meritato una maggiore grandezza rispetto alle trame-satellite. Per il resto il film è uno spettacolo assoluto, un cult semiriuscito che m’arrischio a dichiarare imperdibile, coronato da una colonna sonora e una fotografia esaltanti e, soprattutto, da uno scorrettissimo sarcasmo verso la cultura pop che va dal paragonare Patty Hearst a un cagnolino fino all’immaginare una fantasiosissima risoluzione per il misterioso caso del serial killer Zodiac, ucciso, come s’immagina nel film, da Zachariah e Maggie nel loro ultimo colpo. Unica avvertenza: i contenuti del film che state per guardare sono violenti, una violenza iperrealistica ed estetizzata, al modo di Tarantino, ma non per questo meno scioccante.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente si consiglia la precedente pellicola di McDonagh, ossia In Bruges (2008). Per film su criminali schizzoidi consigliamo poi Le Iene (1992), Pulp Fiction (1994) e Jackie Brown (1997) di Quentin Tarantino, l’eccelso bastardo Assassini Nati (1994) di Oliver Stone e Una vita al massimo (1993) di Tony Scott, ma non dimentichiamo le genialità inglesi Lock & Stock (1998), Snatch (2000) e Revolver (2005) di Guy Ritchie.


Scena cult – Oltre al sulfureo incipit, vere gemme della pellicola sono i due aneddoti del quacchero e di Zachariah e le scene dei tre protagonisti nel paesaggio lunare del deserto.

Canzone cult – In mezzo a tanta bellezza, non posso che scegliere il pezzo che apre il film: Angel of Death di Hank Williams.

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