USA, 2003
Regia:
James Mangold
Cast: John
Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet, John Hawkes, Alfred Molina, Clea DuVall, John
C. McGinley
Sceneggiatura:
Michael Cooney
Trama (im)modesta - «Era una notte buia e tempestosa». Un
ex-poliziotto e un’attrice famosa, una prostituta, una famigliola, una coppia
di novelli sposi, un agente di polizia e un pericoloso assassino: tutti si
ritrovano, legati per le solite complicanze del fato, bloccati da un tremendo
nubifragio in uno scalcinato motel dove incontrano il proprietario, Larry. Undici
perfetti estranei che, sotto la pioggia incessante e tagliati fuori dalla
società, cominciano a morire uno dopo l’altro, misteriosamente. Da un’altra
parte uno psicologo cerca di salvare dall’esecuzione capitale Malcom Rivers,
assassino con disturbi mentali che proprio in un motel ha compiuto un’efferata
strage...
La mia (im)modesta opinione – Di thriller così se ne trovano
ormai pochi. Certo, andrebbe detto che il coup de théâtre che tira magistralmente
le fila di tutta la storia e che ha fatto passare Identità negli annali dei
grandi film disgraziatamente dimenticati facilita di troppo il lavoro agli
sceneggiatori. Ma questo certo non toglie troppo a una pellicola che è insieme
così tante cose che, alla fin fine, è soltanto se stessa. Interessante di
sicuro è la dimensione metanarrativa in cui la storia si colloca, a voler fare
gli intellettualoidi. Ma questo a noi non interessa. Identità è uno di quei
thriller che bisogna aver visto in vita propria. Si dovesse giudicare frusto lo
stratagemma finale dello script, si ricordi che il film ha un’età
considerevole: dieci anni sono passati da quei novanta milioni di dollari
incassati a partire da un budget di soli ventotto milioni.
Il regista, James Mangold, non è chissà che artista
speciale. Sa ben ambientare la storia: il labirintico motel, il deserto buio e
battuto dalla pioggia, la cupezza degli interni. Tutto, in Identità, fa pensare
a una sorta di romanzo gotico moderno – dove gotico, attenzione, si riferisce
alla saldatura fra dimensione narrativa, psicologica e d’ambienti. Gli
stereotipi sono tutti saccheggiati, poi rimasticati. Mescola e cita: Psycho,
Shining, Seven, Dieci Piccoli Indiani... Il film non presenta chissà quale
caratterizzazione dei personaggi, ma un cast perfettamente indovinato (in testa
il sommo John Cusack e, dietro di lui, un Ray Liotta che più dark non si può),
uno sviluppo coerente e intrigante della storia, con i segreti che pian piano
vengono a galla, fanno della pellicola di Mangold una assoluta chicca del
genere.
Il film, inoltre, sa essere assai inquietante. Il leitmotiv
della poesia infantile, l’omicidio della mazza da baseball, la scena della
lavatrice: tutti momenti strappati all’horror psicologico che s’inseriscono alla
perfezione nel mosaico un po’ adultero della pellicola. Interessante, poi,
l’inquietante finale: il Male torna sempre indietro a uccidere i nostri sogni e
sa essere tanto astuto da distruggere tutto ciò di buono e luminoso c’è in noi.
Si segnalano poi nella pellicola i ruoli dell’indimenticata ma latitante Amanda
Peet e del mitico John C. McGinley, mattatore assoluto della serie Scrubs nei
panni del tagliente Dr. Cox. Non resta, però, che rammaricarsi per il regista:
Identità poteva essere un grandissimo trampolino di lancio, ma per lui è stato solo un debito mai davvero saldato.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Iniziamo dai numi
tutelari: Dieci piccoli indiani (1945) di René Clair, Psycho (1960) di Alfred
Hitchcock, The Others (2001) di Alejandro Amenàbar, I soliti sospetti (1995) di
Bryan Singer e il Seven (1995) di David Fincher. Chiaro debitore di Identità,
poi, è lo Shutter Island (2010) di Martin Scorsese insieme a Inception (2010)
di Christopher Nolan. Segnaliamo poi il classico sempreverde Schegge di paura
(1996) di Gregory Holbit e Fight Club (1999) sempre di David Fincher. Notevole
poi Secret Window (2004) di David Koepp e il Nascosto nel buio (2005) di John
Polson.
Scena cult – Il finale parallelo. La scena della lavatrice.
Canzone cult – Non pervenuta.
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