giovedì 16 agosto 2012

FUNNY GAMES U.S. (2007), Michael Haneke


USA, Austria, 2007
Regia: Michael Haneke
Cast: Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Brady Corbet, Devon Gearhart
Sceneggiatura: Michael Haneke


Trama (im)modesta – È tempo di vacanze per la famiglia di Ann e George che si recano alla casa sul lago insieme al figlio Georgie e al cane Lucky. Tutto sembra andare per il meglio fino a quando due compiti e cortesi giovani biancovestiti non si presentano alla porta chiedendo delle uova. Ricevute le uova, i due non sembrano volersene andare, accampata come scusa per la loro discreta occupazione del focolare domestico la tanto garbata quanto vacua chiacchera che il bon ton non manca mai di dettare. Non volendosene andare, si prova di usare la forza fisica per far sloggiare gli intrusori ma questo sarà l’inizio di un malato gioco al massacro che vedrà la famiglia di Ann e George sequestrata, torturata e infine uccisa.


La mia (im)modesta opinione – Uno spettacolo feroce o, per meglio dire, la ferocia fatta spettacolo. Haneke è un giudice che non conosce clemenza. Se le mani che tolgono la vita ai protagonisti sono quelle guantate e candide dei due feroci aguzzini in bianco, la tortura esiste in funzione dell’intrattenimento di un pubblico ingnaramente colpevole. Siamo noi, gli spettatori, i mandanti (impliciti) di questo massacro, Peter e Paul si preoccupano in maniera tanto sollecita solo del nostro divertimento. Chiede Naomi Watts a Brady Corbet: «Perché non ci uccidete subito?», risponde Corbet, stolido e disinvolto: «Sottovaluta l’importanza dello spettacolo.» Quanto al movente degli omicidi, poco importa. Ciò che spinge gli assassini possiamo noi deliberatamente inventarlo. Michael Pitt chiede con candore a Tim Roth quale storia preferisca: infanzia turbolenta? ecatombe perpetrata per noia? Tutto va bene, tutto si addice. Funny Games è uno spettacolo fornito a uso e consumo dello spettatore di cui i due giovani killer sono i perversi animatori. E l’aspetto ludico è uno degli aspetti più sconvolgenti di questo film, già a partire dal titolo.


Tutte le dolorose, sadiche tappe dell’eccidio sono beffardamente scandite da giochetti infantili: si usa la conta per stabilire chi morirà per primo, si inventano indovinelli, si fanno scommesse. È stato detto che Peter e Paul sono la versione agghiacciante di Stanlio e Ollio. È vero. Tremendamente vero. E saranno forse parenti nemmeno troppo lontani del ledgeriano Joker con la madness for madness’ sake e il suo gusto della declinazione al ludico anche delle peggiori abiezioni. Sia Peter e Paul che il Joker de Il Cavaliere Oscuro (come anche il mostruoso Alex DeLarge, i due killer di Elephant e tutti i loro parenti e amici lontani e vicini) non sono sadici né labili psicolabili. Sono vuoti umani che giocano a uccidere e terrorizzare solo perché possono. E, specialmente in questo Funny Games, l’immane violenza dei due assassini pare spiccare per contrasto con la loro melliflua cortesia e il loro giocoso scherzare e divagare. La verità è che l’esatta natura di Peter e Paul è più metafisica che umana, i due torturatori sono come due angeli (e di angeli sembrano avere l’aspetto) mandati dal regista/padreterno a compiere una sacra missione: fare violenza, uccidere e (inquietante pariglia) intrattenere il pubblico.


Già, perché almeno uno dei due assassini, ovverosia Peter, sa di essere guardato e anzi, più e più volte infrange la quarta parete dialogando con il pubblico: ammicca prima, poi domanda all’audience se voglia o meno una storia con un finale plausibile, al culmine del bizzarro usa un telecomando per far tornare indietro il tempo e tarpare l’unica possibilità di coup de thêatre che il regista, con simulata sbadataggine, si è fatto sfuggire. E il punto della pellicola è proprio questo: il desiderio di Haneke non è di darci speranza ma di scagliare contro di noi una pesante accusa. «Questo è quello che volevate e ora ve lo tenete», pare dire. Insomma ci ingiunge, come un padre che vede realizzato un suo avvertimento e sconfessata la speranza di un figlio avventato,  di pedalare su quella bicicletta, forse troppo alta, su cui abbiamo tanto insistito di salire. Per questo mi sento di dire che Funny Games è un film molto, molto educativo nel suo essere così acido e sanguinoso (benché non ci venga mostrata nemmeno la minima ferita sanguinante o atto di violenza).


Ora veniamo però alla pietra dello scandalo, che è anche pietra angolare e chiave di volta del film. La dicitura del film, dopo il titolo di Funny Games, recita anche un lapidario U.S. Sì, perché Funny Games è un film già esistente, girato in tedesco negli anni ’90 dallo stesso Haneke e sempre da lui stesso scritto, insomma un remake girato inquadratura per inquadratura con medesimi dialoghi, musiche e situazioni. Perché, dunque, se il film già esisteva così fatto e finito, ricrearne una copia conforme perfettamente uguale all’originale? Trista operazione commerciale? Forse, ma no. Haneke, per sua stessa ammissione, ha sentito di voler girare un film uguale al suo precedente ma in inglese per raggiungere l’obiettivo che il primo Funny Games non era riuscito a raggiungere. «Volevo girare in inglese, la lingua della violenza», ha detto Haneke. Ovvero, voleva rivolgersi al pubblico che della violenza più efferata fa banchetto e bagordo sopra ogni altra nazione: il pubblico anglofono. La violenza di cui parla Haneke, beninteso, non è la violenza di Eli Roth, Rob Zombie o di un Tarantino ma la violenza psicologica, l’accostumazione al sopruso, la monotonia dell’omicidio e via dicendo.


Il film procede dunque con un tono mezzano, diviso fra il gelo della dimostrazione matematica e la passione per l’ineluttabile di una sonata o, dato che siamo in tema, di un dramma operistico. E non è mancato chi, vedendo il film, l’abbia paragonato a uno di quei tumultuosi crescendo rossiniani dove a ogni passo la musica si fa più concitata fino a sfociare nella deflagrazione finale. Solo che, come d’uso nei film di Haneke, la passione e la concitazione sono azzerati da uno sguardo asettico e chirurgico che dilaziona all’infinito la catarsi, distorce il tempo e congela la passione. Il risultato sono lunghe, strazianti scene dove il dolore dei protagonisti diventa un gelido stillicidio di algie e martirio che non può che prostrare lo spettatore (come, del resto, succedeva ne La Pianista). Coronamento delle musiche e del film è la ferocissima canzone Bonehead dei Naked City che sfonda come una mazza chiodata le delicate movenze della musica lirica che riempie tutta la pellicola. Non c’è che dire: Haneke è un grandissimo maestro.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Certamente sono da consigliare gli altri film di Haneke: il primo Funny Games (1997), La Pianista (2001), Niente da Nascondere (2005) e Il Nastro Bianco (2009) in cui Haneke attua la sua analisi del cuore di tenebra dell’essere umano da lati tutti diversi: la sessualità morbosa, la colpa nascosta, la violenza che promana dalla rigidità dell’ordine precostituito. Un altro esempio della pornografizzazione della violenza è la saga di Saw, con speciale menzione a Saw 4 (2008) di Darren Lynn Bousman che trascina il pervertimento dello spettacolo e l’ossessione per il truculento al punto di non ritorno. Altro sconvolgente film la cui visione è una sfida prima gastrica e poi mentale è The Human Centipede 2: Full Sequence (2011) di Tom Six che fra tendini maciullati e denti rotti a martellate diventa una sorta di maratona di orrori e si presta ai più originali giochi di gruppo (del tipo: quanti minuti resistete? Io al quarantacinquesimo ho dovuto dire basta). Decisamente più interessante è il vintage Il Coraggioso (1997) d Johnny Depp, interessante digressione sul tema della violenza.


Scena cult – Indubbiamente gli infantili lazzi dei due assassini che lasciano basiti i loro stessi doloranti e sconvolti ostaggi.

Canzone cult – La “sporchissima” Bonehead dei Naked City e il Quintetto per clarinetto, violini, viola e violoncello di Mozart.

2 commenti:

  1. Ottimo e potente prodotto, che si sia visto oppure no il precedente.
    Haneke, come sempre, è in grado di disturbare nel profondo.

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  2. Per fortuna che c'è lui, aggiungerei io. Oggigiorno il disturbo è l'unica possibile forma di insegnamento.

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