USA, 2004
Regia: Tod
Williams
Cast: Jeff
Bridges, Kim Basinger, Jon Foster, Elle Fanning, Mimi Rogers, Bijou Phillips
Sceneggiatura:
Tod Williams
Trama (im)modesta – Ted Cole è un famoso scrittore e
illustratore di libri per bambini che vive a Long Island insieme alla
figlioletta di quattro anni, Ruth, e alla moglie Marion, da cui sta per
divorziare. L’unione della famiglia Cole è andata frantumandosi da quando i due
figli maggiori di Ted e Marion sono tragicamente morti in un incidente d’auto
lasciando Marion pressoché impazzita e Ted ubriacone e fedifrago. Quando a Ted
viene tolta la patente per guida in stato di ebbrezza, a casa Cole arriva lo
studente universitario Eddie, aspirante scrittore, che fungerà sia da autista
che da assistente a Ted. Ben presto, però, Marion ed Eddie allacceranno una
relazione che finirà per degenerare, distruggendo per sempre la famiglia di
Ted.
La mia (im)modesta opinione – «The horror, the horror», così
mormorava il morente Mr. Kurtz con gli ultimi aliti di vita strappati a coppia
ora alle feroci febbri africane ora alle trafitte dell’animo martoriato da
morte e terrori. Ed è da un singolo, macabro dettaglio, da una microscopica
grinza della storia – una grinza sepolta dalle nevi di un inverno lontano ma
che arriccia, con la profondità delle sue pieghe, anche la levigata superfice
del presente – che la storia sprigiona ed effonda. Quale sia la natura della
sopradetta grinza, cosa la grinza rappresenti e perché, è un arcano che è
meglio non svelare e che lascio all’ipotetico spettatore come risolutiva
scoperta posta alla fine di questa filmica Corona di Gerione: d’oro massiccio
all’apparenza, sì, ma riempita per pigrizia, sciocchezza o avidità di truffaldino
argento. Insomma, senza virar troppo al poetico, diremo che The Door in The
Floor è un bel film, un film bellissimo, ma che sarebbe stato degno di un
maggiore sforzo da parte dell’autore/regista che ha partorito un bambino sano,
sì, ma un po’ sotto peso. Solito, odioso caso da «È intelligente ma non si
applica». Stupenda pellicola, sì, ma che, specialmente nella parte centrale, si
perde un poco e lascia minuscoli nodi irrisolti, senza approfondire a dovere i caratteri
e le vicende e abbandonando il lirismo della prima parte per il più crudo
realismo della seconda.
The Door in The Floor è il riadattamento della prima sezione
del romanzo del grande John Irving Vedova per un anno. Insomma, la storia che
il film ospita per tutta la durata delle sue due ore è in realtà solo la prima
sezione di un più grande romanzo che di sezioni ne ha tre e ha per centro Ruth
Cole, qui relegata a un ruolo importante ma sostanzialmente marginale. Non che
ci sia però, per questo, bisogno alcuno di sentire, sopra questo film, un qualche
odore di adultero e falsificato perché il trascolorare delle vicende del libro
in quelle del film, il loro trasmutarsi e cambiar forma e immagine migliora,
per così dire, il tessuto originale del testo, facendolo più umano e colorando
di un salutare colorito i pallidi incarnati dei machiavellici intrighi che Ted
Cole allestiva in Vedova per un anno. Il dramma della famiglia Cole, dunque, ci
è presentato in tutta la sua umanità, in tutta la sua fragilità più densa e
dolorosa: c’è la stolida alienazione di Ted, bercione e femminaro che cerca il
proprio posto nel mondo recitando all’infinito se stesso, in fuga da chissà
quale colpa; c’è il pietrificato orrore di Marion (inaspettatamente, il vero
motore tragico della storia); c’è la monomania memoriale della piccola Ruth, ossessionata dal ricordo prenatale dei
fratelli che non ha mai conosciuto e di cui, forse, sa di essere la poco
apprezzata sostituta.
Esiste, all’interno del film, tutto un sotteso fatto di
oscure rispondenze fra natura e cultura, mascherati simbolismi (cosa sta a significare la porta
nel pavimento da cui, alla fine, esce anche Ted?) e una appassionata, per
quanto poco affannosa, carnalità che coinvolge tutti i protagonisti, dallo
scrittore Ted che gira sempre nudo o mezzo nudo a sua moglie Marion che seduce
– per pietà o per contorta brama incestuosa? – il giovane e tormentato Eddie,
anche lui perseguitato da uno strano rapporto con il suo corpo, al pari della
folle modella di Ted, la signorina Vaughn. Oltre a tutte le possibili chiavi di
lettura (che richiederebbero un’analisi più lunga della mia voglia di scrivere
e della vostra tolleranza al leggere) una marca sicura è che The Door in The
Floor è un film malinconico, triste in maniera quasi sublime, eroica. Ogni
personaggio è pungolato dallo spettro di un qualche passato, visibile o
invisibile che sia, e gli incubi della notte si risolvono nell’uggia mortale
del giorno, catturata alla perfezione da una fotografia dolce, tiepida e tutta
odorosa di morte e disfacimento e gli spettri del passato riverberano all’infinito
nei mille ritratti dei gemelli appesi in ogni stanza di casa Cole, ripercorse ogni
notte, a mo’ di scongiuro, tributo e via crucis, dalla piccola Ruth che ne rinarra
ogni volta storie e aneddoti annessi, finendo per impararli a memoria.
Sorvolando sull’interpretazione magistrale di Jeff Bridges,
che non andrebbe neppure commentata e che forse avrebbe meritato qualche premio
in più (m’arrischio: un Oscar, forse?), andiamo alla vera stella della
pellicola, ovvero a Kim Basinger che anche a cinquant’anni suonati (ma era il
duemilaquattro, cioè otto, augusti anni fa) non solo fa la sua porca,
porchissima figura ma domina lo schermo con quella sua radianza offuscata da
polvere e lacrime, con quel suo gelido tormento interiore e la sua catatonia
dell’anima. Altra bella interpretazione è quella di Jon Foster, incredibilmente
potente nel ritrarre le insicurezze e le tribolazioni di un ragazzo alla
scoperta di sé stesso, della vita e del mondo, a cui s’accoppia quella, pure
straordinaria, della piccola Elle Fanning (certo più dolce e talentuosa della
sorella maggiore, prestatasi, in un attimo di sconforto e disperazione, a quella
ignominiosa prostituzione attoriale chiamata Twilight). Insomma The Door in the
Floor è un film che va visto per forza di cose, per la sua capacità di spiegare
l’amore, la letteratura e la vita in maniera così essenziale e penetrante, per
la sua bella (ma incompleta) cinematografia e per tutti quei suoi difetti che,
in fin dei conti, ci si sente costretti a perdonare.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Per il genere “donna
anziana/uomo giovine” c’è il supercult assoluto da Olimpo Harold e Maude (1971)
di Hal Ashby, lo stupefacente The Reader (2008) di Stephen Daldry e il
morbosissimo Womb (2010) di Benedek Fliegauf, che tra l’altro divide con The
Door in The Floor l’ambientazione marittima e malinconica e il tema del lutto. Per la bizzarria del
rapporto padre/figlia c’è La storia di Jack e Rose (2005) di Rebecca Miller.
Quanto agli amanti della divina Basinger non possiamo che proporre l’immortale L.A.
Confidential (1997) di Curtis Hanson e il leggendario, quantunque un po’
mediocre, 9 settimane e 1/2 (1986) di Adrian Lyne.
Scena cult – Marion, Eddie e Ruth in spiaggia. E, sul mare,
la nebbia.
Canzone cult – Le canzoni sono tante e si va dal rap a
Mozart. Quella che m’ha colpito di più è la volgarissima, sperticata My Neck,My Back della rapper Khia, protagonista di una scena che non so se definire più
divertente o drammatica.
l'avevo sempre ignorato, questo film.
RispondiEliminamagari ora lo recupererò...
Recuperalo, recuperalo. Non grandi emozioni o eroici furori ma, come minimo, ti innamorerai dell'East Hampton a fine estate e dello stile radical-chic di Jeff Bridges!
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