venerdì 13 aprile 2012

CITY OF GOD (2002), Fernando Meirelles


Brasile, 2002
Regia: Fernando Meirelles
Cast: Alexandre Rodrigues, Leandro Firmino, Phelipe Haagensen, Seu Jorge, Alice Braga
Sceneggiatura: Bràulio Mantovani


Trama (im)modesta - La Cidade de Deus è una delle tante favelas abbandonate da Dio agli uomini nella Rio de Janeiro degli anni '60 e '70, un sobborgo degradato eternamente sospeso nell’indefinibile vertigine fra bruttura e santità, abiezione ed eroismo, passioni torbide e amori salvifici. Una borgata dominata da una ferocissima legge della giungla dove c’è chi scappa, chi combatte, chi soccombe e chi domina. Un quartiere straziato dai denti della luce del sole, calcinoso e arido, dove la polvere delle strade e i miasmi delle case strangolate dal cemento si mescola sotto un cielo torrido e impietoso. È su questo palcoscenico che si dipana la storia (ma le storie sono migliaia) narrata dal mite Buscapé, un ragazzo normale che cerca di trovare un equilibrio ed un futuro in mezzo ai tremendi eccessi della spaventosa Città di Dio.


La mia (im)modesta opinione – I film come City of God sono spesso film problematici per costituzione: corrono il rischio di ingrigirsi in un moralismo noioso e cattedratico (come il pallido Miss Bala), quello di diventare funamboli insensati e chiassosi senza coesione e struttura (come l’anfetaminico e scontato Bangkok Dangerous), quello di trasformarsi in arida cronaca da telegiornale locale oppure quello di scadere nel volgare sensazionalismo che spesso fa volare le pellicole troppo in alto prima di affondarle (dico un solo nome: Mellisa P. magari non una grandissima ciofeca ma comunque una visione che lasciano un po’ a bocca asciutta). Ma per fortuna in questo City of God, il regista decide di lasciare la narrazione alla (non tanto) immacolata innocenza del giovane Buscapé, figlio redento della Città.


E Buscapé è solo è un narratore imparziale e pressoché assente, un fotografo, un naturalista che guarda senza giudicare ma non privandosi di una certa ironia appena percettibile e che racconta le gesta eroiche, tragiche e furiose dei figli della Città: una Rio de Janeiro mai tanto simile alla Los Angeles di James Ellroy, mai tanto vera, mai tanto sincera con la sua bizzarra progenie di bravi ragazzi, banditi, esiliati, prostitute, randagi. Un vero e proprio teatro conurbato dove le memorie si stratificano insieme all’asfalto, dove il cemento armato e il legno marcio strangolano pietà e compassione e Dio pare vicino, perché è troppo lontano.


Inutile dirlo, il punto di vista di Buscapé è quello del regista che decide di narrare senza concitazione, senza affettazioni o moralismi la cronaca di un selvaggio fazzoletto di mondo dove si consumano drammi pubblici e privati, dove vengono messe in scena le passioni, le brame e le fregole di una gioventù scalmanata e arrabbiata contro sé stessa e contro il mondo, avida di un riscatto che non è solo sociale da un senso di degrado che ci si sente sempre addosso, come un sudario, sempre pronto a soffocare e a cui ognuno cerca di fuggire come può: c’è chi emigra dalla Città, c’è chi resta e decide di essere il capo assoluto, di dominare sopra ogni cosa e ogni evento, come Zé Pequeno.


Ed è proprio Zé Pequeno l’attore principale del nostro dramma: eroe tragico, masnadiero schilleriano, gangster alla Tarantino, natural born killer, animato da singolare e travolgente furia, fossilizzato su un’idea irraggiungibile di potere assoluto, ribelle malinconico e furente, destinato alla fine più tragica di tutte quante. Dico attore perché la Cidade de Deus è un luogo dove la vita stessa diventa un dramma, ora tragedia ora commedia. Dove le vendette si consumano sanguinosamente, dove il delitto d’onore è un’istituzione forte, dove tutto assume “i colori gridati del palcoscenico”, dove persino la narrazione tanto verista e lontana dall’enfasi retorica dei tanti film di denuncia è divisa in atti, scene e capitoli. Un luogo che non può fare a meno di essere palcoscenico e, allo stesso tempo, vita reale.


Questi effetti sono ottenuti grazie ad un montaggio, una fotografia, una sceneggiatura e una direzione artistica senz’altro ruvidi e un po’ grossolani ma che restituiscono l’atmosfera squallida e sovraccarica delle favelas di Rio. Lo dico di nuovo: in questo film è assente ogni enfasi retorica. La favela non è un protagonista invisibile, rimane sempre sfondo – uno sfondo necessario perché è solo dentro la Cidade de Deus che si possono consumare questi drammi, lontani da una società civile (che però risulta essere meno civile di quella della Città) che viene esorcizzata a suon di pizzi e mazzette.


L’affresco che viene creato, dunque, è quello di un mondo che respira gli afrori barbari e sensuali di un mondo ancora arcaico e primitivo, vibrante di carni nude esalanti sudore e umori, pregno di valori che si dimenticano ma che dominano dall’alto della loro ombra misteriosa, dove l’unica redenzione è la fuga e l’unico martirio è l’assassinio; un affresco che evoca le parabole di santi ed eroi moderni, che combattono guerre, sorgono e cadono circondati da un’atmosfera di irreale e selvaggio, ma un irreale e un selvaggio incredibilmente moderni e preoccupanti che fanno sembrare paurosamente vicino alle nostre strade e ai nostri portici quel mondo di mentecatti e criminali che popola, rumoroso e sudato, i fotogrammi della pellicola.


 Se ti è piaciuto guarda anche...American History X (1998) di Tony Kaye, una parabola diversa sulla salvezza e sul martirio nella modernità, simile a City of God per molti versi ma tecnicamente superiore per la sbalorditiva interpretazione di Edward Norton. Il Profeta (2009) di Jacques Audiard, altra novella di iniziazione criminale, sempre potente ma in questo caso più densa del sapore di un’innocenza perduta che dei fumi intossicanti di una favela sovraffollata. Gomorra (2008) di Matteo Garrone, film abusato, appesantito da un senso di tragedia sempre incombente ma incredibilmente efficace nella sua messa in scena della violenza che, prima di esplodere in strade e quartieri degradati, incendia la mente di giovani e vecchi. E per ritrovare le atmosfere ipersature e afose del film, Romeo + Giulietta (1996) di Baz Luhrmann, imponente kolossal urbano che ha i toni della tragedia greca e del baraccone kitsch e coloratissimo, un restauro totale e geniale al testo del Bardo, troppo penalizzato dal classicismo dei vari Branagh e Zeffirelli.


Scena cult – Due su tutte: il tragico party d’addio di Benè con il suo continuo scambiarsi di vittima e carnefice e il suo accumulo di suspance e la storia del Trio Tenerezza, vero e proprio episodio a sé che contiene le storie e le sensazioni dell’intera Città di Dio alla sua nascita.


Canzone cult – La nostalgica ed esotica ballata Metamorfose Ambulante di Raul Seixas. Ma non sono da meno neanche le hit anni ’70 Dance Across the Floor, Hold Back the Water, il grande classico Kung Fu Fighting e So Very Hard To Go.

4 commenti:

  1. Bella rece.Unica cosa mi sa che ti manca completo Jorge Amado...Altro che Ellroy, ciccio.
    Consigli: Capitani della Spiaggia..Così capisci.

    :)

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