lunedì 9 luglio 2012

TOUT EST PARFAIT (2008), Yves Christian Fournier


Canada, 2008
Regia: Yves Christian Fournier
Cast: Maxime Dumontier, Chloé Bourgeois, Normand D'Amour, Niels Schneider
Sceneggiatura: Yves Christian Fournier, Guillaume Vigneault


Trama (im)modesta – Prima è il turno di Sacha, poi Alex, Thomas, Simon. Uno si spara, uno si annega, uno si impicca. Josh è il quinto, impotente membro di quel gruppo di amici che vede i suoi compagni morire uno dopo l’altro. Digerire il lutto è difficile, la follia che scatena la morte è soverchiante. Josh non può che non pensare ossessivamente a loro, muovendosi in un mondo gelido e cementizio sospeso fra la rievocazione memoriale dei suoi amici perduti e l’amore per Mia, che esorcizza la morte.


La mia (im)modesta opinione – Iniziamo, per analizzare meglio Tout Est Parfait, dalle parole della canzone che apre il film: la ballata Wash dei Calexico. «Death acts, / and Life reacts». Dunque prima c’è la morte, poi la vita si organizza di conseguenza. Ed è proprio quello che traspare dalle immagini del film. Il mondo di Tout Est Parfait è il mondo della morte, non tanto nel senso che la morte viene celebrata o che il film vede la realtà in chiave macabra ma che, nel film, quella della morte è una presenza ammorbante, omnipervasiva, che invade anche i più piccoli gesti della vita quotidiana. È una presenza che si fa oggetto nell’algido squallore della provincia, nel monotono biancore dei poveri appartamenti, nella grigia monotonia del paesaggio. Una presenza costante che raggela i nostri protagonisti, facendoli assiderare a morte mentre questi si stringono disperatissimi ai loro sentimenti.


Una monotonia, dunque, che è voluta e perfettamente riuscita nel suo tentativo di dipingere un mondo che è come “un’ottava sotto”, un posto senza luce e colore. Un luogo dove ogni spazio è aperto alla rievocazione degli spettri del passato e dove la volontà della morte è come una malattia che contagia dove e come può. La costante presenza di un senso sordo di morte trasforma il ricordo in pugnalata, il sogno in terrore, l’amore in muto esorcismo. Un mondo che è tanto pauroso (ma stranamente familiare, fidatevi) quanto costruito. Proprio questo mondo così morto e cimiteriale è solo la visione di Josh, il tormentatissimo protagonista, interpretato da Maxime Dumontier (una specie di Ed Westwick più simpatico), un attore nè bello né particolarmente bravo ma che riesce bene a trasmettere l’umor nero del suo personaggio e la sua rabbia sorda e cocente.


Con questo suo stile così sublime, Fournier riesce a gestire una pletora di personaggi svelando anche, poco a poco, le storie pregresse ai suicidi ma senza mai rivelarne i fini ultimi. Perché se la morte ci tenta anche all’ombra del sole, quella tentazione non ha un motivo vero. Il personaggio di Sacha, il capo del gruppetto di amici al centro della vicenda, che ha il viso di Niels Schneider, ovvero il meraviglioso Nicolas, de Les Amours Imaginaries di Xavier Dolan, è l’unico a poter avanzare una scusa anche vagamente fondata (il suicidio del padre avvenuto sotto i suoi occhi) ma tutti gli altri tre giovani suicidi sono morti senza un particolare motivo, motivando i loro gesti su dei video che noi vedremo, ma non sentiremo mai. Se non sappiamo i motivi di quel gesto non è per colpa del regista malizioso ma perché le intenzioni di Fournier non erano quelle di inquadrare un problema sociale dei giovani ma di dipingere un mondo dove la morte è una presenza ossessiva, tutta mentale, ma raggelante.


 Dopo il liberatorio, ma non positivo, riscatto finale, il film trova una seconda chiave di lettura nella lenta e suadente Misery is a Butterfly dei Blonde Redhead: «Misery is a butterfly / Her havy wings will warp your mind». L’infelicità (ma misery può voler dire anche squallore e sofferenza) avvolge la nostra mente, la ottenebra e trasforma il mondo in un landa desolata. Siamo allora fortunati che Fournier abbia deciso di non sfruttare, banalizzandolo, un tema che già in sé è come un pugno allo stomaco e non abbia solo messo in scena il sentimento della tristezza ma la sua grande componente intellettuale che mescola passione a strazio e orrore a rimpianto. Esplorando l’animo di Josh in maniera discreta ma precisa: nel suo cercare sempre la compagnia del padre dell’amico morto c’è la sofferenza per genitori inadeguati nel gestire i suoi problemi, nel suo fare l’amore affannoso, caloroso e disperato vediamo un non troppo efficace scongiuro contro la morte.


Diciamo allora, in definitiva, che Fournier ha imparato bene dai suoi “maestri di scuola”: Van Sant, Clark, Bresson ma anche Malick e Thomas Anderson. E come non vedere la presenza di Terrence Malick con le sue musiche simbolico-descrittive e quella di Thomas Anderson per quel senso dell’epica moderna, tutta incentrata con la lentissima agonia della società borghese. Una capacità, sempre mutuata da Thomas Anderson, di portare alla ribalta personaggi anche considerati “di contorno” con scene brevi ma taglientemente incisive come, per esempio, quella del dialogo fra la giovane Mia e la madre di Sacha: due personaggi così ‘strumentali’ che all’improvviso si trasformano in attori principali. Un film sui teenager ma non un film da teenager. I più lo troveranno lento e deprimente, ma chi ha occhi per vedere sarà abbagliato dallo splendore. Tranne qualche piccolo neo, si può dire che tutto è perfetto, in questo Tout est Parfait.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I maestri di Fournier sono immediatamente riconoscibili. Si va dal Gus Van Sant della “Trilogia della Morte” cioè Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005) e anche dei capolavori più recenti come Paranoid Park (2007) fino al nichilismo del trittico di Larry Clark, Kids (1995), Bully (2001) e Ken Park (2002). E non dimentichiamo le forti tracce de Il diavolo probabilmente… (1977) di Robert Bresson insieme a vaghi parallelismi con il Detachment (2011) di Tony Kaye.


Scena cult – Lo spiazzante flashback che descrive i suicidi intrecciandoli con le confessioni mute dei ragazzi che si uccidono. Tutto gestito dal poetico sottofondo di Cat Power che canta la sua lenta Troubled Water.

Canzone cult – Oltre alle già citate Troubled Water di Cat Power, Misery is a Butterfly dei Blonde Redhead e Wash dei Calexico, abbiamo il western disperato di Gillian Welch Caleb Meyer, la Maybe Not sempre di Cat Power, i pezzi rap Let’s Go di 2Faces e M’accrocher? Di Loco Locass.

2 commenti:

  1. pare roba interessante.
    ma ci sono i sottotitoli?

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    Risposte
    1. Sì li trovi. Il film è abbastanza importante nel circuito. Lo presentarono alla Berlinale, a suo tempo. Veditelo, è stupendo.

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