martedì 18 dicembre 2012

MARGIN CALL (2011), J.C. Chandor


USA, 2011
Regia: J.C. Chandor
Cast: Kevin Spacey, Jeremy Irons, Zachary Quinto, Paul Bettany, Stanley Tucci, Penn Badgley, Demi Moore, Simon Baker
Sceneggiatura: J.C. Chandor


Trama (im)modesta – Quando Eric Dale, capo del settore rischi di un colosso del credito finanziario di Wall Street, viene licenziato in tronco, fa appena in tempo a passare all’analista Peter Sullivan una chiavetta con all’interno un lavoro lasciato a metà. Tornando sul lavoro del capo, più tardi, Peter scopre che Dale aveva previsto un crollo delle azioni pronto a demolire con gli interessi la società per cui lavorava. È emergenza. Nella notte gli alti papaveri della società si riuniscono, prendono atto del vicino naufragio e si confrontano su una scelta: svendere tutte le azioni, causando una metastasi del credito e la rovina di milioni di investitori, o colare a picco insieme alla nave? I pareri sono discordanti, ma il verdetto è presto pronunciato: la catastrofe incombe su tutto il mercato.


La mia (im)modesta opinione Margin Call è un film tragico, un dramma sofocleo che, curiosamente, rispetta pure le tre unità (di tempo, d’azione e di spazio) che costituivano il canone della tragedia greca. Un götterdämmerung notturno da colletto bianco che vede gli scafisti del mondo (diciamocelo pure, è il denaro che fa girare l’universo) decidere fra le proprie sorti e quelle dei passeggeri che insieme a loro solcano il mare sul barcone dell’economia. E sebbene il livello di teatralità del film sfiori pericolosamente lo zero, la storia è tutta attraversata dai temi trasversali e dalle allegorie della rovina e del crollo, nel senso più fisico del termine. Le vertiginose inquadrature dei grattacieli newyorchesi, gli strapiombi da centesimo piano e persino una svelata scena in cui il personaggio di Paul Bettany sentenzia sul gettarsi dai tetti, tutte quante suggeriscono il pericoloso tema della caduta, del tracollo e del baratro.


I personaggi che animano la vicenda non sono meno tragici. Ci sono i più umani, come quelli interpretati da Stanley Tucci, Zachary Quinto e Kevin Spacey, che riescono a percepire, al di là della cruda moneta, la presenza di un’umanità la cui sicurezza da loro dipende; ci sono quelli più avidi e secchi, come quelli di Simon Baker e Penn Badgley, che aspirano al confortante freddo dell’oro; e poi ci sono i disillusi, in questo caso il broker Paul Bettany e il capo dei capi Jeremy Irons, per cui il problema non è perdere o guadagnare, ma sopravvivere. E quello di Jeremy Irons è forse il personaggio più emblematico, a cui è affidata la chiave di lettura dell’intero film. Vera maschera d’Arpagone, arcidiavolo ed eminenza grigia, il John Tuld di Jeremy Irons va oltre il semplice concetto di avidità: la crisi è sempre esistita ed è sempre tornata, lui dice, la storia ripete sempre lo stesso giro implacabile, l’etica è un problema obsoleto perché inutile è l’eroismo, l’unico obiettivo sensato è la sopravvivenza; vanità tutto il resto.


Ed è proprio questo lento crescendo di dissidio interiore e mercantilizio (per dirla in questo modo) con la duplice acme finale dell’ineluttabilità della sventura, da una parte, e, dall’altra, dell’attaccamento alle piccole cose, quelle di nessun valore (in mezzo a tutti i disastri del mondo, Kevin Spacey soffre per la morte del proprio cane) che rende un film altrimenti freddo, un’allegoria del mondo. Il pessimismo è amaro, la pietà lontana, ma non per questo il film è perfetto. Sebbene infatti la pellicola dell’autore/regista Chandor riesca a volare alto, le spinte più tragiche e umane finiscono per sfociare in una necessaria (e originale) freddezza da ragioniere: il film è lento, la trama è pressoché immobile, i personaggi ben sbozzati ma, tutto sommato, abbastanza dimenticabili. Questo, dunque, il limite principale della pellicola che però, nel suo voler essere assolutamente moderna e attaccata fino alla minuzia alla realtà dei fatti, si concede momenti d’alta significanza: Demi Moore piangente sullo sfondo dell’alba di Manhattan, il cinico contrasto fra i due direttori d’azienda e la donna delle pulizie dentro l’ascensore, le amarissime considerazioni di Zachary Quinto e Paul Bettany sul mondo e sul denaro.


Per spiegare tutto questo, Chandor rinuncia totalmente all’artificio. Il film è naturale, nudo e crudo, le strutture narrative sono denudate e palesi, i personaggi spiegati in modo piano e meditatamente naive e la denuncia sociale serpeggia liberamente per tutte le scene del film, ma con una certa discrezione, grazie al cielo, evitando inutili additamenti e faziosità. Qui sono i personaggi crudeli che si autoaccusano; ma, sebbene esista un’accusa, non ci sono né giudice né giuria. Il mondo è così com’è e ogni rospo lo dobbiamo ingoiare. Per questo suo carattere iperintellettuale (nel senso che quelle della crisi sono teorie, elucubrazioni e calcoli) il film cade ancora una volta nella trappola della freddezza. Peccato non sia dunque così immediatamente entusiasmante ma molti gran bei film colpiscono più in testa che in pancia. Ci accontenteremo e, nel frattempo, non dimenticheremo questo Margin Call.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I principi dell’economia al cinema sono, senza alcun dubbio, Wall Street (1987) e Wall Street: il denaro non dorme mai (2010) di Oliver Stone. Altro cinico (e freddo) ritratto della società odierna è il recente Le idi di Marzo (2011) di George Clooney. Abbiamo poi Capitalism: A Love Story (2009) di Michael Moore, il televisivo Too Big to Fail (2011) di Curtis Hanson, Inside Job (2010) di Charles Ferguson e The Flaw (2010) di David Singleton.


Scena cult – Sul podio sta il monologo di Jeremy Irons sulla natura del denaro e della storia, in seconda posizione troviamo Demi Moore che, piangendo, contempla l’alba e, in terza, la scena di Paul Bettany sul tetto.

Canzone cult – Ovviamente la stupenda Wolves dei Phosphorescent.

8 commenti:

  1. La scena in cui Stanley Tucci sui gradini della sua casa di Brooklyn Heights fa il discorso del tempo risparmiato grazie al ponte che ha progettato, già da sola vale tutto il film.

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    1. In effetti la quantità di poesia abilmente dissimulata non è affatto indifferente...

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  2. Bel film: preciso, coinvolgente, senza fronzoli o eccessi arriva dritto al punto.

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    1. Il minimalismo è un bene. Il film è stupendo e io mi preoccupo dell'oggettività, personalmente preferisco i "meloeroici furori".

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  3. grandissimo film, una delle sceneggiature più acute degli ultimi tempi...
    è vero, è un pochino freddo, ma nella sua dirompente attualità a me ha colpito parecchio anche alla pancia. come un pugno ben assestato

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    1. Dramma moderno. Ho trovato molto interessante come ti abbia fatto pensare a Collateral. L'atmosfera d'attesa e d'avvento è proprio similissima e ugualmente suggestiva.

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  4. Gran film e gran sceneggiatura.
    E post davvero ottimo. Bravissimo!

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    1. Rendo solo conto degli aspetti più essenziali del film. Il che non è molto. Il linguaggio è fiorito ma si tratta solo di un vezzo infantile. Mille grazie, comunque.

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