venerdì 14 dicembre 2012

THIS MUST BE THE PLACE (2011), Paolo Sorrentino


Italia, Francia, Irlanda, 2011
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Karry Condon, Harry Dean Stanton
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello


Trama (im)modesta – Cheyenne è una rockstar ormai in pensione che s’è ritirata in una lussuosa magione in Irlanda con la moglie. Vive, Cheyenne, coi suoi soldi e i suoi rimorsi; e sebbene abbia abbandonato da anni e anni il palcoscenico, non rinuncia ancora al trucco di scena e alle bizzarre capigliature. Ogni settimana va a deporre fiori sulle tombe di due ragazzi che, prendendo troppo per filo e per segno le sue deprimenti canzoni, si sono uccisi. La vita di Cheyenne procede nel cristallo di questa mesta monotonia, finché gli giunge una notizia sconvolgente: suo padre è a New York, sul letto di morte. Non fa Cheyenne in tempo ad arrivare che il padre con cui non ha mai parlato è spirato, ma scopre che quest’ultimo aveva speso quasi tutta la sua vita alla ricerca di un criminale nazista che abitualmente l’umiliava ai tempi di Auschwitz. Cheyenne decide allora di completare le ricerche del padre e vendicarlo, e così s’imbarca per un viaggio solitario che gli farà rivalutare la vita e se stesso.


La mia (im)modesta opinione – Nevrotici, narcisi sopra le righe, nascosti dietro le lenti di occhi spenti e insonnoliti. Questi sono gli antieroi che popolano il cinema di Sorrentino, dall’amico di famiglia Giacomo Rizzo, al titanico Andreotti di Toni Servillo, fino al lento, torpido Cheyenne, con quei suoi modi infantili, le inflessioni da terza elementare, lo sguardo sperduto. Perché i personaggi di Sorrentino non sono le semplici figure, più o meno ben delineate, che popolano le geometrie preziose dell’inquadratura: sono parte integrante del cinema stesso, fulcri intorno a cui si svolgono le rivoluzioni di trama e regia. Non avrebbe senso immaginare un film di Sorrentino senza i personaggi di Sorrentino, né i suoi film sono altro da questo: studi su personaggi al di sopra (o sarebbe meglio dire al di sotto) di ogni sospetto.


E anche se a qualcuno potrà vedere queste mie considerazioni come una riduzione e impoverimento del cinema del nostro miglior cineasta nazionale, è ancor vero che sono i personaggi a titaneggiare nei suoi film e, più che i personaggi, gli antieroi insospettabili: uno sgorbio usuraio, un politico gobbo dalle arguzie taglienti e, nel nostro caso, una stramba rockstar, a metà Robert Smith e a metà Alice Cooper, che vaga per le strade dell’America imbattendosi in ogni genere di incontro, affrontato con saggia ingenuità. Poco importano, a parer mio, gli altri discorsi che il film stuzzica ma finisce per lasciar perdere: la vita, il perdono e la vendetta, la redenzione, l’identità, la famiglia. Idee sagaci, per quanto larvate, che sono comunque al centro di scene di esplosivo lirismo ma che finiscono per gonfiare oltre misura una pellicola che avrebbe fatto meglio a dotarsi di meno accessori.


E dunque, a fine film, oltre all’emozione che la storia sa evocare, non fatica a profilarsi l’idea vaga di un film fine a se stesso, certamente superlativo, ma privo di veri e propri messaggi di un qualche tipo. E dico così perché, va ammesso, la visione di This Must Be The Place è una visione infinita, estenuante. Il film dura due ore giuste giuste, eppure sarebbe stato opportuno stringere, compattare e incentrarsi su un solo obiettivo. Se quelli che definisco “studi su personaggi” sono di solito latori di messaggi di stampo più generale, questo studio su un personaggio estremamente singolare rende il film involuto, arroccato in una sorta di godurioso e ornato solipsismo. Mi spiego meglio: la catarsi avviene per Cheyenne, non per gli spettatori. Un classico esempio, insomma, di troppo finito: quello di Cheyenne è un personaggio così a sé stante, così sui generis che finisce per ammazzare l’empatia.


Vediamo la stramba rockstar riprendere il controllo sulla propria vita, guadagnarsi l’uscita dalla sua infanzia, ora proroga ora prigione, ma ciò che fa crescere Cheyenne non riesce a dare qualcosa di concreto allo spettatore. Il risultato? Il miglior film italiano dell’anno passato, forse anche di quest’anno; una prova magistrale di virtuosismo da parte dell’unico regista che separa l’Italia dal baratro della cultura; una performance attoriale da ricordarsi, che da sola sostiene tutto il film, affidata com’è alle poderose spalle di uno Sean Penn clamoroso come non mai, bravo oltre ogni dire, che supera sempre se stesso. Il tutto accompagnato da una fotografia, un montaggio e una colonna sonora di rarissima eleganza. This must be the place (e in maggior misura Il Divo) è la prova che il polso del nostro cinema non è una linea del tutto piatta.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente tutti gli altri stupendi film di Sorrentino a partire dal pressoché perfetto Il Divo (2008), L’Amico di Famiglia (2006), il fulgido Le conseguenze dell’amore (2004) e L’Uomo in Più (2001). Per la vita di rockstar sull’orlo del delirio ricordiamo il bellissimo ma un po’ vuoto Control (2007) di Anton Corbijn, sulla vita di Ian Curtis, e il difficile e oscuro Last Days (2005) di Gus Van Sant, riguardo le ultime settimane di vita di Kurt Cobain. Parecchio più sopra le righe ma ugualmente commovente è il I’m not there (2007) di Todd Haynes.


Scena cult – Il monologo di Aloise Lange e il commovente finale.

Canzone cult – Fra tutte eleggo la più scontata: ovvero la This Must Be The Place dei Talking Heads.

8 commenti:

  1. Sorrentino made in USA mi ha conquistata! Ed è vero, il suo cinema sta tutto nei personaggi!

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    1. Decisamente il miglior regista italiano sulla piazza. Grande autore, grande sceneggiatore!

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  2. ottima riflessione sul cinema di sorrentino. sarebbe interessante vederlo in futuro alla prova di un film diverso, slegato dal suo "studio di personaggi".

    riguardo a questo film, io l'ho invece trovato molto emozionante e sono persino riuscito a provare empatia per il mitico cheyenne :)

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    1. E' vero. Il finale è da spezzare il cuore, e poi ci sono certe scene che fan venire il capogiro.

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  3. Io ho apprezzato praticamente solo il finale, tecnica sopraffina a parte.
    Il film più freddo e posticcio del mio adorato Sorrentino. Per me zero empatia.

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    1. Sul senso di freddezza son d'accordo, ma è un buon prezzo per un film che è veramente di livello internazionale e potrebbe competere con un altro di grande portata.

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  4. Concordo sul fatto che il cinema di Sorrentino si concentra sui protagonisti. In questo caso, però, il procedimento è sfruttato maluccio. La prima parte del film è quella che funziona meglio proprio perchè vogliamo capire chi si cela dietro la maschera di Cheyenne. Ma i nostri interrogativi non trovano risposta e l'attenzione viene sviata da un viaggio di ricerca che non aggiunge e non toglie niente alla narrazione (vi ricordate, invece, "Una storia vera" di Lynch?). P.s. Che qualcuno mi spieghi il finale perchè non ne ho capito né l'utilità né il significato.

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    1. Indubbiamente molti nodi non sono risolti, ma la bravura nella stesura di determinate scene mi spinge a perdonare le falle narrative.

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